• Cesare De Marchi •
PID: https://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-EAA2-A
Non c’è forse figura di poeta che più di Torquato Tasso abbia dato materia alla letteratura con le vicende della sua vita. E io, che non amo in nessun senso fare eccezione, con il mio Fuga a Sorrento mi sono aggiunto alla lunga lista.
La materia del racconto si trova già prefigurata in alcuni versi quasi alla fine del dramma di Goethe (atto V, sc. IV, vv. 3141 ss.):
Verkleidet geh’ ich hin, den armen Rock
Des Pilgers oder Schäfers zieh’ ich an.
Ich schleiche durch die Stadt, wo die Bewegung
Der Tausende den einen leicht verbirgt.
Ich eile nach dem Ufer, finde dort
Gleich einen Kahn mit willig guten Leuten,
Mit Bauern, die zum Markte kamen, nun
Nach Hause kehren, Leute von Sorrent;
Denn ich muß nach Sorrent hinüber eilen.
Dort wohnet meine Schwester, die mit mir
Die Schmerzensfreude meiner Eltern war.
Im Schiffe bin ich still, und trete dann
Auch schweigend an das Land, ich gehe sacht
Den Pfad hinauf, und an dem Tore frag’ ich:
Wo wohnt Cornelia? Zeigt mir es an!
Cornelia Sersale? Freundlich deutet
Mir eine Spinnerin die Straße, sie
Bezeichnet mir das Haus. So steig’ ich weiter.
Die Kinder laufen nebenher und schauen
Das wilde Haar, den düstern Fremdling an.
So komm’ ich an die Schwelle. Offen steht
Die Türe schon, so tret’ ich in das Haus -1
Goethe si ferma qui, prima dell’episodio cruciale, e non può fare altrimenti dal momento che il discorso del suo personaggio ha la forma di una vaga prefigurazione. Quando ideai il racconto avevo sì letto questo testo (allora in traduzione italiana), ma non mi ero fermato su questo particolare. La mia attenzione, o per meglio dire l’attenzione della mia fantasia si svegliò più tardi e in modo sicuramente più banale: leggendo, lo so per certo, il sommario della vita di Tasso che Lanfranco Caretti fa seguire in appendice al suo saggio sul poeta. La fantasia non si sveglia mai per caso: e l’episodio, che doveva essermi già noto fin dalla scuola, mi colpì solo allora, in un momento in cui avevo con mia sorella un rapporto particolarmente affettuoso, pur nella distanza che le poste italiane accrescevano a dismisura (le lettere che ci scrivevamo impiegavano mediamente 11 giorni: da Milano a Chiavari, 170 chilometri; ai tempi di Tasso probabilmente ce ne impiegavano di meno).
L’uomo spaurito e angosciato, che si crede attorniato da nemici, si presenta alla sorella travestito da pastore e le annuncia la propria morte; la sorella sviene, e lui ha finalmente la certezza di essere amato almeno da questa persona, e allora, ma soltanto allora, le si dà a conoscere. Una storia estrema, che ha dell’incredibile, ma che proprio nella sua estremità rivela la disperazione assoluta dell’uomo. La mia fantasia ne restò colpita e cominciò a chiedere altra materia, materia di dettagli. La mia fantasia è fatta così, chiede dettagli prima di darne lei; e una volta che ne ha abbastanza e ha davanti a sé un quadro sufficientemente ricco e mosso, vi interviene. Essa è insomma l’opposto dell’immagine diffusa dai romantici, e durissima a morire, del poeta che prende fuoco e subito, ma preferibilmente di notte, si mette a scrivere di getto fiumi di poesia incandescente. Sembra che i più prolifici tra gli scrittori romantici fossero capaci di produrre una lava di 30 e più pagine per notte; (dormivano di giorno, o non dormivano affatto). Confesso che, se questo modo di far letteratura corrispondeva davvero alla pratica romantica, non c’è nulla da cui io sia più lontano che dal romanticismo. Dove un romantico incominciava a scrivere, io incomincio a documentarmi; dove la sua fantasia si illuminava e vedeva, la mia tasta nel buio cercando i primi contorni degli oggetti. La parola «documentarsi» potrebbe far pensare che io in Fuga a Sorrento volessi fare una ricostruzione scrupolosa, per quanto inevitabilmente ipotetica, di un evento reale: lo scopo che avevo era invece soltanto di trovare materia narrativa. La fantasia mi aveva indicato un oggetto forte ma ancora confuso: per mettermi a raccontare avevo bisogno di altre linee e nodi drammatici, di altri particolari; grazie ai quali non volevo ritrovare il Tasso reale e storico, ma una figura da far muovere e un quadro entro il quale farla muovere.
In primo luogo bisognava definire la successione dei fatti: Tasso rinchiuso a Ferrara in una stanza sorvegliata da due custodi, la sua fuga, il viaggio probabilmente a piedi attraverso alcune regioni d’Italia, l’arrivo a Sorrento e l’incontro con la sorella, che costituiva lo scioglimento del racconto. Avevo dunque il punto di partenza e il punto d’arrivo: mi mancavano le tappe intermedie e soprattutto il carattere che scatenasse gli eventi.
In questo lavoro di documentazione avevo a mia disposizione, oltre le opere di Tasso, il suo epistolario e le tre biografie di Manso, Serassi e Solerti. La prima, tanto bella quanto fantasiosa, fu pubblicata da Giovan Battista Manso nel 1621. Manso aveva conosciuto e parlato non solo con Tasso, il quale gli aveva dedicato il dialogo Dell’amicizia, ma anche con un figlio della sorella, Alessandro Sersale, che gli raccontò l’episodio della fuga del poeta a Sorrento. Dalla biografia di Manso discendono molte leggende, la più famosa delle quali è l’amore del poeta per la duchessa Leonora, sorella di Alfonso d’Este. Questa leggenda è banale ed anche singolarmente simile a quella di don Carlos (la reclusione dell’amante temerario), e si può affermare che essa ostacolava piuttosto che favorire la creazione di un’opera d’arte: infatti soltanto pochi genii riuscirono a cavarne qualcosa di buono. E non vi ricorsero solo i romantici, ma anche Goethe, e prima di lui l’insospettabile Goldoni: Goldoni, in una commedia2 del 1755 in orribili versi martelliani, giocò sugli equivoci mettendo in scena ben tre Leonore, a una delle quali, restando a lungo incerto a quale, va l’amore del poeta…
Non è questa la sola leggenda diffusa da Giovan Battista Manso con la sua biografia: anche particolari minori come l’apprendimento della favella, che Tasso avrebbe compiuto «appena uscito dal sesto mese»3, sono chiaramente idealizzati o senz’altro stravolti: come Tasso parlasse, anche da adulto, è un punto su cui tornerò tra poco e che ha parte nel mio racconto. Anche di un frequente colloquio con un folletto riferisce Manso, dichiarando di avervi una volta assistito, benché naturalmente udendo solo le parole di Tasso, non quelle del suo misterioso interlocutore: una leggenda alimentata dal celebre dialogo Il messaggero, e che arriverà fino al bellissimo dialogo leopardiano. In realtà dall’epistolario si desume semplicemente che Tasso conduceva lunghi «soliloqui», cosa che lo angosciava per la paura che, «se sono da alcuni ascoltati (e possono esser da molti), a molti son noti i miei disegni».4 In altra occasione Manso arriva a vantare la bravura di Tasso spadaccino, che avrebbe messo in fuga i fratelli Fucci (o Maddalò), dai quali invece fu bastonato, come risulta incontrovertibilmente da un documento pubblicato da Angelo Solerti5 e come testimonia persino la didascalia tassiana al sonetto Più non potea stral di fortuna o dente (che tra l’altro Manso cita per intero6): «Fatto a quel suo amico caro che in Ferrara gli diede poi delle bastonate, dove cominciò la sua pazzia.» Bastonate, non duello. Ho ripreso l’episodio in Fuga a Sorrento, a pag. 62,7 in forma di confuso ricordo del protagonista.
La biografia di Serassi (pubblicata nel 1785 e in seconda edizione nel 1790), di cui Goethe si servì unitamente a quella di Manso, ha avuto per me un’importanza secondaria, dal momento che è stata poi ampiamente superata da quella scrupolosissima di Angelo Solerti (1895), il cui secondo volume è tutta una raccolta di documenti d’epoca, due dei quali citerò tra poco. Anche più importante, oltreché lettura sconvolgente e indimenticabile, mi è stato l’epistolario, raccolto e pubblicato da Cesare Guasti in cinque volumi tra il 1852 e il 1855. Qui, più ancora che nelle poesie, ho riconosciuto i tratti del personaggio che nel mio racconto compie il viaggio febbrile da Ferrara a Sorrento: che è, prim’ancora che viaggio o fuga corporei, un percorso mentale. Le lettere mi hanno fatto trovare il personaggio; sono un monumento letterario, e nel loro genere sicuramente le più belle e impressionanti della letteratura italiana insieme a quelle di Giacomo Leopardi. Tasso vi si consegna interamente come a un diario, rivela pensieri, paure, incubi, dettagli spaventosi della sua pazzia; queste lettere, di cui mi sono servito con grande libertà cronologica (e quindi con scarso scrupolo di ricostruzione documentaria), mi hanno suggerito e forse addirittura imposto la forma del discorso indiretto libero, che qui ho usato per la prima volta in modo coerente dal principio alla fine della narrazione, e che ho sostenuto con un tempo verbale inconsueto, il trapassato prossimo (fin dall’apertura: «Fuggire non era stato difficile… Era sceso… si era reso conto…»8, e così via). In questo modo tutti gli eventi vengono presentati, non solo attraverso la mente alterata di Tasso, ma anche nella prospettiva temporale del punto di arrivo della fuga: infatti giunto a Sorrento di fronte alla sorella, che non può riconoscerlo poiché non lo vede da quando era bambino, il tempo verbale scivola inavvertitamente nella forma consueta della narrazione italiana, il passato remoto. Anche la struttura delle frasi, continuamente ritorte su sé stesse a dare un’impressione come di circolo, e ossessivamente ricadenti dalla descrizione esterna a un’angustiosa interiorità, perdura lungo tutto il racconto sciogliendosi forse in un unico momento, dove i pensieri del personaggio trovano il nodo in cui confluiscono e si stringono: «Tanto valeva morire», a pag. 90 e seguenti, dove il personaggio intuisce l’identità di tutta la propria esistenza con il vuoto della morte.
Ma torniamo alla successione degli eventi sui quali doveva costruirsi e modellarsi il viaggio mentale di Torquato Tasso. Dicevo prima che avevo il punto di partenza, l’evasione dalla camera del palazzo, e il punto d’arrivo, che era anche culminazione e scioglimento della vicenda. Mancavano i momenti intermedi. Qui le mie letture «documentarie» mi hanno per così dire preso per mano e condotto da un punto all’altro (sebbene il percorso di Tasso sia impossibile a ricostruirsi con esattezza).
Il primo passo del fuggitivo è nascondersi e cercare aiuto. Una lettera di un funzionario ducale al duca Alfonso d’Este, e un’altra del conte Lambertini alla duchessa mi davano i primi particolari di cui avevo bisogno:
Il Tasso ha rotto l’uscio che va nella camera del Signor Ercole Conegrano e se n’è uscito senza che sia stato sentito dai custodi; e avendomelo fatto sapere, ho mandato alle porte perché non sia lasciato uscire, ma in questa ora che io sono qui in Fattoria, mi viene detto che stamane per tempo se n’è uscito per la porta di San Polo, con un cappellaccio in capo e male vestito, onde dandomi a credere che se ne vada verso Bologna, come sempre ha desiderato, ho ordinato che vi vadano dietro due cavalli. E ne manderò due altri verso il Finale se per avventura se ne andasse alla Mirandola, e lo farò condurre per guardarlo poi come furioso.9
Questa testimonianza è stata utile per l’avvio del racconto, con il dettaglio della forzatura della porta e con l’altro per me molto importante dei due cavalieri che lo cercano, il che mi ha fatto immaginare che il fuggitivo si getti in un campo di frumento e si accovacci tra le spighe alte per non essere visto. Più importante ancora il particolare riferito in un’altra testimonianza, che Tasso si era presentato dal conte Lambertini malandato e vestito da contadino.
Questa mattina quasi a giorno, è giunto costì da me il Signor Tasso, qual era tutto malandato, vestito da contadino, e molto affannatamente mi ha racconto com’è fuggito da Ferrara, e che Vostra Eccellenza Illustrissima mi commette che li faccia dar modo di andar a Bologna sicuramente. Io che aveva già sentito la sua sventura, ho fatto ogni possibile per trattenerlo, né mai vi è stato modo, onde che s’è partito ora ora per Bologna. Così n’avviso Vostra Eccellenza Illustrissima per ogni buon rispetto che sarà per fine, supplicandola umilmente a degnarmi della grazia sua, che me l’inchino con questo, e le bacio riverentemente le mani. Del Poggio li 28 luglio 1577.10
Questo particolare ha reso necessario introdurre una scena in cui Tasso, ormai al tramonto, irrompe in una casa contadina, sorprendendo una famiglia a tavola, e prima a parole poi con la minaccia di un coltello si fa consegnare dal padre di famiglia i suoi abiti malconci, che indossa abbandonando i proprî. Nel breve dialogo ho anche introdotto l’elemento (ben documentato) della balbuzie del poeta, che ricompare nell’incontro con il conte Lambertini:
Il servitore insonnolito che lo aveva fatto entrare, doveva aver capito dai suoi gesti e dalle parole precipitate che si trattava di cosa grave: e spingendosi con le dita la camicia dentro la cintola, era andato a chiamare il conte.
Lui aveva aspettato su una seggiola, forse aveva dormito, perché non conservava coscienza di tempo trascorso quando si era trovato di fronte la faccia buona e aperta del vecchio conte. Questi lo aveva salutato affettuosamente e invitato a confidare in lui; poi lo aveva condotto in un’altra stanza, a una tavola apparecchiata; con parole quasi paterne lo aveva pregato di volersi ristorare con una colazione.
E lui si era seduto e aveva bevuto il latte caldo e mangiato fiducioso i piccoli pani bianchi, tiepidi, che il conte Cesare gli porgeva man mano, dopo avervi lasciato colare col cucchiaio un filo dorato di miele. Quanta riconoscenza aveva sentito per quell’atto di umile devozione, quanta benevolenza aveva scoperto in quegli occhi leggermente arrossati, in quella voce lenta e pastosa.
«Dunque, signor mio caro, cosa vi capita? che cosa può fare per voi il vostro amico il conte Lambertini?»
E per un istante lui aveva creduto di potergli dire tutto:
«Fuggo da Ferrara, conte Lambertini. Io, signor conte, sono troppo fieramente perseguitato, ho nemici potentissimi a corte, da cui non mi posso guardare perché non so chi sono: e mi hanno accusato al Sant’Uffizio come eretico, e poi hanno cercato di togliermi la vita col veleno… più volte; ma io ho rifiutato le bevande e i cibi…»; e dicendo così, aveva spinto le maniche indietro fino al gomito e mostrato gli avambracci scarniti, tremanti. «Ho rifiutato bevande e cibi; mangiando di nascosto, finché ho potuto: ma negli ultimi giorni ho digiunato affatto, perché mi avevano rinchiuso nelle mie stanze.»
Qui, in un nuovo accesso di diffidenza, aveva bevuto un lungo sorso spiando da dietro la tazza il volto del conte. Gli era parso che si fosse irrigidito.
«Non fuggo e non vengo a voi di mia iniziativa», aveva ripreso correggendosi, cominciando a balbettare. «La du-duchessa me lo impone per mia si-sicurezza, e impone a vo-voi di farmi arrivare incolume a Bo-Bologna.»
Il conte gli aveva preso una mano tra le sue.
«Signor mio caro, non avverrà mai ch’io manchi a un ordine di Sua Altezza la duchessa e soprattutto che io trascuri di prestare a voi un aiuto che possa farvi salva la salute, e forse la vita stessa. Ma voi, Signor mio da bene, mi apparite sfinito e lacero», aveva aggiunto accennando ai suoi abiti di contadino, dei quali lui si era del tutto dimenticato; «io vi accompagnerò in capo al mondo, ma mi terrei responsabile di qualsiasi affanno o male dovesse toccarvi…» Prima di continuare, il conte lo aveva guardato ancora. «Onde vi prego di volervi riposare qualche ora intanto che verrà attaccata la carrozza; e vorrei pure, prima che ci mettiamo in via, che voi prendeste un buon pranzo con me.»
«No, fate attaccare subito!» La voce gli era uscita quasi in un grido; si era interrotto, cercando di addolcirla: «Vi prego, conte Lambertini, considerate che i miei nemici stanno sul chi vive, che si saranno già accorti che manco da Ferrara...»
«Ma non possono sapere che siete qui, né lo sospetteranno mai.»
«Non capite? manderanno cavalieri per tutte le strade, non desisteranno finché non mi abbiano ritrovato… Perché credete che mi sia travestito?»
«Il travestimento ora è superfluo: viaggerete nella mia carrozza, con le tende chiuse.»
«Le apriranno, vorranno guardare dentro.»
«Io vi siederò accanto: saprò impedirlo: scenderò, parlerò con loro, dirò che viaggio per ordine della duchessa con persona di gran conto che deve restare in incognito.»
«Non farete che insospettirli di più! Io ho paura, conte, ogni istante di indugio può essermi fatale. Voi non sapete che potenza sconfinata, che irriducibile ira è quella dei miei persecutori.»
«Ma signor mio caro, tutti questi timori sono senza motivo; ora calmatevi, ve ne prego. Voi quasi mi parete frenetico...»
La parola gli era dunque sfuggita, venuta fuori come arma proditoria da un mantello. Lui l’aveva ricevuta in silenzio e lasciata senza replica. Ma aveva osservato che le palpebre flaccide del conte si erano ridotte a una fessura, dentro cui la pupilla guizzava felinamente. Era d’accordo anche lui, nella cabala con gli altri, come gli altri; sapeva tutto già prima che lui arrivasse, anzi aveva sperato nella sua venuta, lo aveva aspettato costruendo i discorsi, studiando i gesti, approntando tutte le macchine dell’inganno. E lui era caduto nella trappola, ora sarebbe stato preso: sarebbero entrati dalla porta dietro di lui e l’avrebbero preso; e lui era disarmato, non c’erano coltelli sulla tavola, il conte non aveva spada al fianco da potergli sfilare di sorpresa dal fodero. Adesso tornando a guardarlo, aveva rivisto quel sorriso amorevole a fior di labbra, quell’espressione studiosamente mite che lo aveva sedotto a confidare; ma ormai era certo di non sbagliarsi, non gli restava che simulare calma, ostentare fiducia per carpirne a sua volta.
Intanto aveva spinto indietro la sedia e si era alzato, togliendo con quanta più naturalezza poteva da uno dei due pomi che ornavano lo schienale il suo cappello di feltro, dentro cui teneva nascosta una moneta d’oro. Il vecchio lo guardava con gli occhi spalancati come se gli stesse leggendo nel pensiero. Lui si era sentito trasalire; già spesso infatti, incapace di soffocare i pensieri fastidiosi, prorompeva in lunghi soliloqui: e spesso al venir meno della malinconia era rimasto in dubbio se avesse inseguito soltanto il corso muto della fantasia o se avesse parlato corporalmente. Anche adesso il pensiero si era lasciato dietro come uno strascico di suoni che ingombrava la mente: tutto nella mente sembrava a tal punto rimescolato, che non era più possibile separare il reale dal fittizio: roteava nel turbine delle sensazioni, uno strano disordine cresceva dentro di lui…
In silenzio il conte lo aveva lasciato oltrepassare la porta e allontanarsi. Quando lui poi, già lontano sulla strada, si era voltato l’ultima volta, lo aveva visto in cima alla scalinata allargare appena una mano, senza scostare il braccio dal busto, in un gesto rattenuto, forse più di rammarico che di commiato.11
Ma prima di arrivare a Gaeta e imbarcarsi per Sorrento si rendeva necessario un altro travestimento, quello da pastore, che tra l’altro è documentato da una lettera di dieci anni posteriore di Torquato a Cornelia del 14 novembre 1587.12 Questa fuga è una sequela di travestimenti, che io non ho considerati certo nel loro aspetto romanzesco, ma come drammatica espressione della malattia mentale di Tasso. La mania di persecuzione che avete visto affiorare nel dialogo con il conte Cesare, che durante il viaggio ha spinto il mio personaggio a tenersi discosto dalle vie maestre, e cercare i cespugli all’appressarsi di un viandante, esplode nell’incontro coi due pastori sull’Appennino, escogitato per attuare l’ultimo travestimento. Qui, accanto al fatto tecnico della trama, mi interessava la figura del giovane pastore che dal fondo della sua miseria mormora, nell’addormentarsi, una visione del paese di cuccagna…
«Chi sei?»
Era arrivato cencioso, abbrutito, senza più segno, nemmeno nella fisionomia disfatta, del suo stato di gentiluomo: non poteva attrarre interesse né svegliare curiosità… perché volevano sempre sapere da lui – che cosa? Aveva noia di nascondersi, di dover difendere il proprio silenzio.
«Non lo so», aveva risposto.
Il ragazzo si era puntato su un gomito e l’aveva guardato con incredulità affascinata:
«Non sai chi sei?»
«Non so dove vado.»
«E da dove vieni?»
«Da lontano. Ora dormi, stai cascando dal sonno.»
E si era steso anche lui sul suo mucchio di paglia, voltando all’altro la schiena.
«Ma da dove, di preciso?»
Aveva istintivamente mentito:
«Dalla Lombardia.»
«E il tuo accento è lombardo?»
«Sì.»
«Ah, ecco perché è diverso… dal nostro.»
Il ragazzo si era lasciato andare supino, appagato in questa spiegazione; era rimasto qualche minuto in silenzio, forse sopraffatto dalla stanchezza: poi aveva parlato ancora, come in dormiveglia, qualche frase immaginosa.
«Ho sentito dire… che è una terra ricca… la Lombardia… ricchissima… che ci crescono i cavolfiori in mezzo alle strade… e i fagioli si arrampicano ai muri delle case… come l’edera, come la vite selvatica… che entrano dalle finestre, e se si mette una pignatta sotto il davanzale ci si vanno a coricare dentro, da soli… e che in una città di là con un nome strano… c’è tanta farina, che i fornai pagano chi gli mangia il pane… e tutti gli abitanti vanno vestiti di seta…»
La voce era morta in gola. Lui era rimasto solo, con gli occhi aperti nel buio, dove non aveva più visto che i palpiti argentei delle ultime faville nella cenere. La pioggia era cessata.13
Faccio notare che dicendo di venire dalla Lombardia Tasso in realtà non mentiva, giacché nel Cinquecento la Lombardia aveva confini molto larghi che arrivavano fino all’Emilia e alla Romagna; il particolare però mi era indispensabile, e mi sono concesso un anacronismo che qui denuncio io stesso.
Ho scritto questo racconto nel 1984, l’ho pubblicato in rivista tre anni dopo, desiderando sempre di poterlo collocare in un volume: e finalmente ci sono riuscito nel 2003. Ora potrei dirmi soddisfatto, eppure la figura di Torquato Tasso non smette di suggestionarmi. C’è in effetti qualcosa di grandioso in quest’uomo malato che nella fosca età delle persecuzioni controriformistiche e dei supplizî di eretici si accusa spontaneamente al Sant’Uffizio, in questo poeta che scrive una Gerusalemme liberata e continua poi a rifarla spogliandola di tutte le divagazioni e avventure amorose, di tutti quelli che a lui parvero elementi sensuali, fino a soffocarla nella Conquistata. Così ho fatto ricomparire Tasso nel romanzo La furia del mondo, non nella forma diretta del personaggio, ma come immagine ossessiva nella mente del mio giovane protagonista. Questi, Abel, è un figlio di contadini la cui disposizione allo studio viene scoperta dal parroco Rupprecht Radebach, un ex prete cattolico vissuto a lungo a Roma, che passato al protestantesimo è venuto a vivere in un paesino tedesco. Al suo piccolo allievo Radebach insegna il latino e il greco, ma anche l’italiano. Così Abel incomincia a leggere, accanto a Livio e ad Ovidio, anche Tasso, e scrive i suoi primi sonetti imitandolo… In una scena che qui riproduco, Radebach ha mostrato all’allievo una vecchia partitura di cui avrebbe voluto far cantare in chiesa qualche parte tradotta in tedesco; ma vi ha rinunciato scoprendo una terribile coincidenza: La rappresentazione di anima e di corpo di Emilio de’ Cavalieri venne eseguita la prima volta il 17 febbraio 1600 nell’oratorio della Vallicella, poco distante da Campo de’ fiori, dove nello stesso giorno veniva arso Giordano Bruno. Quindi ha raccontato la vicenda del filosofo napoletano ad Abel, il quale scopre a sua volta un’altra dolorosa coincidenza:
«Avete detto che [Giordano Bruno] fu per sette anni nelle carceri del Sant’Uffizio…» Cercava su per la parete, o nella luce della finestra, che gli faceva lucidi gli occhi. «Allora ci dovette arrivare nel 1593…»
«Da Venezia, sì.»
«Nello stesso anno…» Sembrava qualcosa che lo occupava intensamente… «a Roma nello stesso anno c’era anche Tasso…» Ma lui, ne era sicuro, non gli aveva mai parlato del Tasso. «Credete che avrà saputo?» Che avesse letto la Gerusalemme? No, nel volume non c’era una vita del poeta, e poi Abel non era in grado di leggere il poema, neanche aiutandosi coi Toskanische Rudimenta e col gran dizionario del Kramer che gli aveva dati, non era possibile…
«Ma Abel…»
«Lo so, morì prima che l’altro fosse… però era anche lui a Roma; e so che una volta si era fatto interrogare dal Sant’Uffizio, adesso non poteva restare insensibile…» Lo guardava speranzoso, con gli occhi di bambino, chiedendo risposta a lui, il suo maestro.
«Il Tasso era a Roma; abitava in casa del cardinale Aldobrandini, in Vaticano. Sì, Abel, lo stesso cui è dedicata questa partitura; era un appassionato di tutte le arti, un mecenate, e non solo ospitò il Tasso, ma riuscì a fargli avere dal papa una pensione e la promessa di incoronarlo poeta in Campidoglio, come prima di lui il Petrarca, nientemeno!»
«Ma signor parroco…» Lo aveva interrotto: accadeva per la prima volta. «Signor parroco, ma se abitava in Vaticano, non può non averlo saputo.»
Ansimava, perché tutta quell’ansia, voleva fugare un sospetto o trovargli conferma? Tanta emozione per la coincidenza che aveva avvicinato due uomini, i quali non ebbero altro in comune che quella momentanea vicinanza fisica, e se anche non si fossero ignorati come probabilmente facevano, non si sarebbero mai potuti incontrare… Lui stesso, costretto a dire qualcosa che poteva soltanto immaginare, temeva, qualunque risposta decidesse di dare, di deluderlo… Tasso che usciva dalla casa del cardinale, scendeva verso la basilica di San Pietro, arrivava in vista del palazzo del Sant’Uffizio – lo vedeva sicuramente, perché non c’era ancora l’enorme colonnato tutt’intorno alla piazza; e sicuramente pensava a quando i suoi terrori della dannazione l’avevano spinto a fare confessione spontanea di tutti i suoi pensieri all’inquisitore di Ferrara… Chi sa, forse una recrudescenza di quei terrori lo portò, una volta o più d’una, fino sotto il palazzo dove sapeva bene che si segregavano interrogavano torturavano uomini tribolati, com’era stato lui, da pensieri maligni… Ma poi, per quanto chiuso fosse, sempre in ascolto delle sofferenze che affluivano dall’interno dell’anima e del corpo, non poterono sfuggirgli, nella casa stessa del suo benefattore, tra i prelati, voci di soddisfazione, di scherno, chi sa, sul grand’uomo che a dispetto dei suoi spazi e mondi infiniti s’era fatto acchiappare sopra la vecchia terra… sul ribelle che per non volere gabbie alle idee, in gabbia c’era finito lui… E non si era accorto dei movimenti di carrozze e di scorte nelle strade, e non aveva chiesto? non era stato a osservare, non foss’altro che per curiosità?
«Non volete rispondermi, signor parroco…»
No, non voleva, perché qualunque cosa rispondesse l’avrebbe deluso: che il Tasso non avesse saputo; che il Tasso avesse assistito acquiescente o indifferente. Le due alternative, lo vedeva bene, se non ugualmente incredibili, erano altrettanto inaccettabili al suo allievo. Se ne rendeva ben conto; indugiò ancora; poi parlò di colpo senza cercare le parole.
«Il Tasso, poveretto, non era più in sé… se mai lo fu, in sé; anche nel corpo non si reggeva più. E la corona di poeta non l’ha più avuta; trascinarsi ancora su per la scalinata del Campidoglio, non ce l’avrebbe mai fatta, avrebbero dovuto portarcelo a braccia… del resto che cosa poteva importargli, ora che si sentiva finire, la gloria i rumori del mondo: non era che un brusio all’orecchio, lontano lontano… Alla fine domandò ospitalità ai frati di Sant’Onofrio e lasciò casa Aldobrandini per il convento: sul Gianicolo, la strada è lunga fin lassù, ma il suo cardinale non gli avrà fatto mancare una carrozza… Ci sono salito anch’io, Abel; si vede tutta la città: la cupola di San Pietro e Castel Sant’Angelo, ai piedi del colle, non sembrano distanti. Ma non credo che il Tasso si affacciasse mai; era venuto lì a morire, non a guardare ancora il mondo. In Sant’Onofrio è conservata la sua maschera, per questo ci andai.»
Il bambino lo fissava con un misto di ammirazione e di cruccio; di nuovo, senza una ragione, sentì pena di lui.
«Un uomo esausto, e aveva solo gli anni che ho io adesso; nella cera è rimasta la faccia macilenta di un vecchio, con il cranio nudo, gli occhi affondati nelle orbite, e quelle tempie depresse, come se lui stesso nella disperazione ci avesse conficcati i pugni. Non poteva più vivere.»
[...]
«Volete dire che, incontrandosi, si sarebbero ignorati…»
Gli accennò di sì con la testa. Erano troppo diversi. Il poeta sempre ripiegato su di sé a scrutare le minime vibrazioni interiori, il formarsi di emozioni e pensieri, spaventato di tutta l’ombra che gli nascondeva il fondo della propria coscienza. Il filosofo traboccante di energie e insofferente di ogni limite, instancabile nel muovere disegni per la mente. All’altro era grande la propria anima, a lui era piccolo il mondo: non lo appagava che l’idea di un universo infinito.
Abel continuava a guardarlo come se volesse qualcosa da lui, e lui non capiva.
«Quindi non lo sapremo mai…»14
In realtà è noto soltanto che la Rappresentazione di anima e di corpo venne eseguita nel febbraio 1600, ma evidenti esigenze narrative suggerivano di collocare l’esecuzione nel giorno stesso del rogo di Giordano Bruno: e così il mio personaggio, o meglio il suo autore, si è permesso questa piccola forzatura dei fatti...
- Goethes Werke, Hamburger Ausgabe, Bd. V: Dramatische Dichtungen III, Beck: München 1998 (Sonderausgabe), S. 158–59.
- Per dare un’idea del carattere assolutamente incompatibile con il personaggio tassesco ecco due versi che il domestico Targa gli rivolge (atto II, scena ii): «Quando voi domandato m'avete il madrigale, / Credeva, con rispetto, voleste un orinale.» Torquato Tasso, in Collezione completa delle commedie del signor Carlo Goldoni, tomo VIII, Livorno: Tommaso Masi 1789, p. 220.
- Giovan Battista Manso, Vita di Torquato Tasso, a cura di Bruno Basile, Salerno, Roma 1995, p. 18.
- A Scipione Gonzaga, 1º ott. 1586, in Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, Le Monnier, Firenze 1852–55, vol. iv, nº 899.
- Angelo Solerti, Vita di Torquato Tasso, vol. II (Documenti, appendici, bibliografia, indici), al nº lxxi, pp. 110–11, lettera del podestà di Ferrara al duca: «Oggi è stata data una bastonata a Messer Torquato Tasso ch’era in piazza.»
- Manso, cit., pp. 65–66.
- Le indicazioni di pagina si riferiscono alla versione in volume del racconto: Fuga a Sorrento, Feltrinelli, Milano 2003 (il racconto omonimo, comparso in forma lievemente diversa in «Nuova Prosa», nº 1, ottobre 1987, vi occupa le pp. 53–102).
- Fuga a Sorrento, cit., pp. 55–56.
- Lettera di Guido Coccapani ad Alfonso II duca di Ferrara, in Solerti, cit., vol. II, parte ii, nº c, p. 127.
- Lettera del conte Cesare Lambertini a Leonora d’Este, in Solerti, cit., vol. II, parte ii, nº ci, pp. 127–8.
- Fuga a Sorrento, cit., pp. 67–71.
- Le lettere di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo ed illustrate da Cesare Guasti, cit., vol. iv, nº 920: «Non so se fra tante disperazioni debba sperare che voi siate viva, acciò mi raccogliate un’altra volta in abito di pastore: perché in altro non posso venire agevolmente a vedervi.»
- Fuga a Sorrento, cit., pp. 86–87.
- La furia del mondo, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 250–52.