· Francesca Faccini ·
PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-CA9D-5
In dialetto abruzzese «l’arminuta» significa «la ritrovata», ma ciò a cui si assiste nelle pagine del romanzo di Donatella Di Pietrantonio è lo smarrimento della protagonista alla ricerca della propria identità. Restituita da quella che pensava essere la sua famiglia d’origine ai genitori biologici, l’Arminuta si trova catapultata in un ambiente che non riconosce come proprio: da una città di mare è trasferita in un paese dell’entroterra di un Abruzzo ancora arretrato e povero. È il 1975 e la protagonista tredicenne scopre il significato di ‹infanzia violata›.
Per la prassi che vede i bambini consegnati alle coppie sterili – consuetudine che la stessa Di Pietrantonio afferma di possedere nella propria memoria – l’Arminuta era stata data a una coppia di cugini che avevano garantito alla bambina una vita scandita tra lezioni di danza, educazione cattolica e buone maniere, un’esistenza borghese interrotta a causa della gravidanza tanto inaspettata quanto compromettente della madre Adalgisa. Tale concepimento determina per la donna l’inizio di una nuova relazione sentimentale la cui dottrina benpensante non concepisce la presenza di una figlia non frutto del talamo, ma accetta l’allontanamento di una ragazzina, e, allo stesso tempo, segna l’inserimento della protagonista in un nucleo familiare che di nido possiede ben poco. Il passaggio di consegna fissa il paradosso dell’Arminuta che da quel momento inizia a sentirsi orfana pur avendo due madri: «Ero l’Arminuta, la ritrovata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenevo. Invidiavo le compagne di scuola del paese e persino Adriana, per la certezza delle loro madri»1. Nell’approccio che le due figure materne manifestano nei confronti della genitorialità è possibile scorgere l’essenza dei differenti mondi: composto, curato, attento quello cittadino; brutale, diretto, violento quello rurale, una contrapposizione questa che più che celebrare una realtà, denuncia i limiti di entrambe. Se la prima madre, Adalgisa, con la sua gentilezza, accortezza e premura denuncia l’ipocrisia della famiglia borghese, schiava di un codice di comportamento che priva le relazioni di genuinità e reale partecipazione, la seconda madre, con il suo pragmatismo, la sua insolenza e il suo livore, manifesta la miseria del contesto contadino che oltrepassa il concetto di fame e povertà per toccare la questione della rabbia, della depressione e dell’anaffettività: «Tu non l’hai conosciuta la miseria, la miseria è più della fame.»2 Ecco allora che l’Arminuta, rifiutata da un mondo troppo attento ai giudizi e impegnato a controllare lo svolgersi di un’esistenza illesa, impara a conoscere l’indifferenza verso gli eventi e la passività di fronte alla vita, forme di rassegnazione che rivelano un atteggiamento quasi ferino.
Se da una parte l’elemento animalesco svela un’attitudine antieroica alla vita, propensione che caratterizza soprattutto il mondo adulto, dall’altra sottolinea un approccio spontaneo e sensoriale nei confronti dell’esistenza quotidiana. Fin dalle prime pagine del romanzo sembrerebbe, infatti, che l’istinto viscerale dell’Arminuta si possa riconoscere in uno dei sensi più legati all’universo animale: l’olfatto. La protagonista scopre e riconosce gli ambienti attraverso gli odori che questi possiedono; la realtà di un trasloco è nell’odore di scarpe che esce dalla valigia, il saluto di quello che si credeva essere il proprio padre è racchiuso nell’odore delle sue gengive che pronunciano delle false rassicurazioni e nella puzza di gomma bruciata lasciata dalle ruote dell’auto, la prima notte nella camera condivisa con i fratelli è sudore di adolescenti e buio popolato di fiati, l’eccitazione provata nei confronti del fratello Vincenzo aumenta annusando «gli odori diversi delle zone del suo corpo, le ascelle, la bocca, l’odore genitale»3. Quello del fiuto pare dunque essere un’ossessione; difficile non notare l’insistenza con cui gli odori riempiono la storia, odori che nel loro declinarsi in profumo o lezzo mai si allontanano dalla facoltà conoscitiva. È nell’uso sistematico di questo senso che l’Arminuta manifesta la propria appartenenza a un mondo tangibile attraverso le percezioni, un microcosmo che sembra possedere del contesto rurale la componente corporea e della realtà cittadina l’educazione alla cura e l’abitudine alla riflessione, una duplice attrazione che esplicita l’enigma dell’identità.
Ancora osservando l’uso studiato della lingua, è possibile capire la gerarchia degli affetti della protagonista. Nell’incapacità di trovare un appellativo adatto alla seconda madre si scorge il problema di stabilire il ruolo che gli adulti hanno nella vita dell’Arminuta. Se quelli che pensava essere i genitori si sono dimessi dalla loro carica, quelli ai quali viene riconsegnata sembrano subire la loro funzione. Non potendo definire la propria posizione all’interno della nuova famiglia, la protagonista di Di Pietrantonio non è in grado di riconoscere nemmeno quelli che sa essere i genitori biologici:
Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori. Se dovevo rivolgermi a lei con urgenza, cercavo di catturarne l’attenzione in modi diversi. A volte, se tenevo il bambino in braccio, gli pizzicavo le gambe per farlo piangere. Allora lei si girava nella nostra direzione e le parlavo.4
Tale cortocircuito emotivo è palesato anche dall’utilizzo degli aggettivi possessivi. Se Adalgisa e il padre del mare sono i suoi genitori («mia madre», «mio padre»), gli altri sono semplicemente i genitori, il padre, la madre. Questa eliminazione riflette l’impossibilità dell’Arminuta di definirsi come figlia, ma ciò non le impedisce di riconoscersi come sorella – termine che tra le pagine del romanzo pare essere sinonimo di ‹solidarietà›, ‹appartenenza› – anche quando la mancanza di abitudine al nuovo ruolo permette la nascita di un rapporto che sfiora l’incesto:
Non eravamo abituati a essere fratelli e non ci credevamo fino in fondo. Forse non era per lo stesso sangue che lo tenevo fermo, una difesa l’avrei tentata con chiunque altro. Ansimavamo, sospesi sull’orlo dell’irreparabile.5
Nella dialettica dell’assenza di una relazione madre–figlia ciò che trionfa è la sorellanza, un legame che, in questo caso, si svincola da una comune origine culturale emotiva. Il personaggio più riuscito del romanzo è infatti Adriana, l’altra figlia e unica sorella. È nella sua libera ignoranza che si riscontra la genuinità e l’onestà di un mondo contadino che non ha riguardo delle convenzioni e che si muove attratto dai poli di ciò che ritiene giusto e sbagliato.
Ci siamo fermate una di fronte all’altra, così sole e vicine, io immersa fino al petto e lei al collo. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.6
Nella costante tensione verso un’identità negata a causa di una «famiglia deserta»7 il romanzo di Donatella Di Pietrantonio descrive il fallimento dei rapporti verticali al contrario di quelli orizzontali, una condizione che si palesa anche nella lingua: semplice, diretta, asciutta, priva di artificiosità. Eppure, nell’assistere alla creazione del rapporto tra l’Arminuta e Adriana, legame salvifico, reale e continuo, la domanda che rimane senza alcuna risposta è di chi siamo figli:
Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un luogo persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.8