«Dágli, dágli, mi feci pure un nome»: gli ultimi anni di Baretti

· Francesca Luigia Savoia ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F444-9

Premessa

Le ricerche che ho finora condotto sulla vita e sull’opera di Marc’Antonio Giuseppe Baretti (1719–1789), hanno avuto come presupposto costante la convinzione che sia assolutamente necessario correlare tutte le fasi del tortuoso percorso, personale e professionale, di questo autore italiano, assai più strettamente di quanto la natura plurilingue, variegata, frammentaria e, più spesso che no, reattiva e polemica dei suoi contributi abbia incoraggiato a fare. Spero di far cosa gradita agli studiosi di Baretti, così come a chi si interessa del Settecento italiano ed europeo, pubblicando, di seguito a questo saggio, un inedito di qualche interesse: l’inventario dei pochi beni materiali lasciati dallo scrittore alla sua morte. Il documento, omologato due mesi e mezzo dopo il suo decesso a Londra, aiuta a far luce e dà occasione di riflettere sulla parte finale della carriera di Baretti in Inghilterra. Quanti hanno preso in considerazione quest’ultima fase della sua esistenza, hanno teso a farlo, quasi esclusivamente, nel contesto delle polemiche e degli scritti nati dallo stato di generale esagitazione in cui la morte del celebre Samuel Johnson gettò la stampa e l’opinione pubblica inglesi.1 Non vi è dubbio che Baretti si unisse allora alla ‹mischia›, per rivendicare anch’egli lo stretto rapporto intrattenuto per quasi trent’anni con Johnson, e dimostrare in che stima era stato tenuto dal più influente letterato e critico inglese del tempo.2 Lo fece dando alle stampe delle lettere che il celebre amico gli aveva indirizzato; ma anche scrivendo tre ferocissime invettive contro Mrs. Piozzi (vedova Thrale), in risposta alla pubblicazione di ricordi e aneddoti raccolti dalla diarista intorno a Johnson, e alla pubblicazione della folta corrispondenza intercorsa fra i due.3 Comprensibilmente, ma anche sfortunatamente, la virulenza e il misoginismo di queste Strictures,4 ha mal disposto generazioni di lettori contro Baretti, non solo pregiudicando una lettura attenta e un corretto apprezzamento della brillante prosa di questi suoi tre testi satirici inglesi, ma anche influenzando negativamente la valutazione complessiva del suo operato in Inghilterra.

Senza sminuire l’importanza dei buoni uffici che il dottor Johnson aveva resi a Baretti, facilitandone l’accesso ai circoli letterari e culturali londinesi più importanti dell’epoca, bisognerebbe inoltre distinguere – una volta per tutte – ciò che di suo il piemontese contribuì alla propria carriera inglese. Dovremmo ricordare, per esempio, che Johnson era stato quasi del tutto insensibile alle arti visive e alla musica; aveva viaggiato pochissimo ed era stato solo una volta sul continente (in Francia, nel 1775, insieme ai coniugi Thrale, i quali avevano assoldato proprio Baretti come agente e guida di viaggio); era dotto in lingue e letterature classiche, e leggeva correntemente il francese e l’italiano, senza tuttavia essere in grado di conversare in queste due lingue vive. Baretti aveva invece sempre molto viaggiato, rimanendo tutta la vita pronto e interessato a esplorare luoghi, culture e costumi diversi studiandone il linguaggio: oltre a numerosi dialetti conosceva infatti cinque lingue moderne (italiano-toscano, francese, inglese, spagnolo e portoghese), tre delle quali padroneggiava appieno, lo spagnolo più che mediocremente, e il portoghese, insieme al latino, tanto da poterne leggere, studiare e tradurre i testi letterari. Aveva per giunta una preparazione non inconsistente, e certamente un interesse, sia per la musica che per la pittura, la scultura e l’architettura, le quali arti gli diedero in parte lavoro, all’inizio e alla fine della sua carriera, e gli offrirono occasione di acquisire, indipendentemente da Johnson, molti conoscenti e amici nel corso della sua esistenza.

1 I ‹capitali› di Baretti

Lavorando come insegnante privato di lingue, come lessicografo, traduttore e critico letterario, Baretti era riuscito a guadagnarsi da vivere a Londra per quasi trentacinque anni: dal 1751 al 1760, e poi ancora, dopo una pausa di cinque anni trascorsi nuovamente in Italia (tre dei quali dedicati alla stesura della sua importante rivista «La frusta letteraria»), dal 1766 all’anno della sua morte, con solo brevi interruzioni per un nuovo viaggio in Spagna, due in Francia e un ultimo soggiorno in patria. Fra i pochi uomini di lettere italiani del suo secolo recatisi in Inghilterra non semplicemente da «turisti o ospiti occasionali»,5 ma per risiedervi stabilmente e lavorarvi, il poeta Paolo Rolli era stato l’unico a trascorrervi un numero d’anni (dal 1716 al 1744) vicino a quello trascorsovi da Baretti. Va precisato, tuttavia, che Rolli era andato a Londra su invito dello statista Thomas Herbert, 8th Earl of Pembroke, viaggiando in compagnia di George Dalrymple, fratello dell’ambasciatore britannico a Parigi, Lord Stair, e una volta arrivato aveva goduto della protezione di queste come di altre influenti famiglie nobili inglesi. Inoltre, per la durata della sua lunga permanenza in Inghilterra, Rolli aveva potuto contare su una posizione a corte, come maestro d’italiano del principe e delle principesse reali, e aveva lavorato per quindici anni circa, sia pure non continuativamente, come poeta librettista per il King’s Theatre e poi il teatro di Lincoln’s Inn Fields. La sua stessa pregevolissima attività editoriale era stata possibile grazie alla frequentazione di grandi biblioteche patrizie britanniche e all’assistenza di nobili diplomatici e inviati speciali inglesi in Italia, che gli avevano procurato i testi e i materiali necessari al suo lavoro di curatore e traduttore. La carriera inglese di Rolli, svoltasi all’inizio del regno degli Hannover, quando l’opera seria contribuiva ancora al prestigio della lingua italiana e aveva solo appena cominciato a dare segni di declino, era stata, insomma, più vicina a quella di un Metastasio (alla posizione del quale, come poeta cesareo alla corte di Vienna, Rolli aveva infatti ambìto), che non a quella di Baretti.

Quest’ultimo, avendo fallito nei suoi tentativi di trovare, in vari stati italiani, impiego stabile e consono ai suoi consolidati interessi letterari, si era recato in Inghilterra, ormai trentenne, alquanto alla ventura e da perfetto sconosciuto, con una sola, modesta lettera di presentazione. Un ex-rappresentante del Regno di Sardegna a Londra (Giuseppe Ossorio d’Alarçon),6 si era degnato di scrivergli due righe per raccomandarlo a Martin Folkes, un matematico e antiquario, grande amante della cultura italiana, all’epoca presidente della Royal Society e della Society of Antiquaries. In quanto tale, Folkes era stato senz’altro disposto a portare Baretti con sé a qualche adunanza accademica e presentarlo informalmente ai soci presenti, ma non certo a trovargli un’occupazione sicura e adeguatamente remunerata. L’insieme delle vicende che portarono Baretti a emigrare in Inghilterra è forse sufficientemente noto, e io stessa ho avuto occasione di illustrare, in modo più dettagliato che per il passato, gli ostacoli e i successi che egli incontrò nel suo primo decennale soggiorno inglese, fornendo nuove prove e testimonianze della sua infaticabile attività.7 Nondimeno, un esame dei parametri secondo i quali Baretti definiva la propria identità sociale, e una valutazione delle risorse o dei ‹capitali› che aveva o non aveva a sua disposizione,8 al momento del primo come del secondo e definitivo espatrio, può chiarire ulteriormente gli incentivi e le difficoltà che il paese adottivo presentò a questo emigrante intellettuale nell’arco di tempo in cui vi risiedette. Si tratta infatti di periodo particolarmente rilevante nella storia degli equilibri di potere in Europa e nel mondo, che va dalla guerra dei sette anni (combattuta su tre continenti) alla rivoluzione e guerra d’indipendenza americana.

Quali erano i ‹capitali› – economico, sociale e culturale – che Baretti aveva a sua disposizione quando partì per l’Inghilterra, dopo dodici anni di giovanili peregrinazioni ‹italiane›? Sappiamo che il padre Luca, non avendo potuto completare gli avviati studi universitari di architettura, si era provvisto di solida esperienza di agrimensore e come tale aveva trovato lavoro a Torino, capitale del regno sabaudo, trasferendovisi dal nativo Monferrato (un marchesato passato dal controllo dei Gonzaga a quello dei Savoia alla fine della guerra di successione spagnola).9 Pur ricoprendo incarichi amministrativi presso la corte sabauda, e svolgendo un’intensa attività professionale nei cantieri edili della città per oltre venticinque anni, egli non era tuttavia mai riuscito veramente a prosperare. Le sue seconde nozze, contratte un mese dopo la morte della prima moglie (madre del nostro e di altri tre figli maschi), non avevano migliorato ma anzi complicato assai la situazione familiare dei Baretti. Contrastato nella sua nascente vocazione letteraria, il primogenito Marc’Antonio Giuseppe aveva finito per rifiutarsi di proseguire il percorso educativo da chierico che gli era stato imposto, e per abbandonare Torino a diciott’anni non ancora compiuti. Questo aveva forzato il padre a rinunciare al reddito di una cappellanìa, reclamato appunto per far studiare il figlio, e aveva costretto quest’ultimo ad abbracciare la condizione dell’autodidatta e dell’errabondo.

Nonostante l’eredità culturale familiare fosse dunque praticamente nulla, le sue credenziali educative non fossero di tipo istituzionale e le sue disposizioni e preferenze estetiche necessitassero di un ampliamento d’orizzonte, Baretti era approdato in Gran Bretagna con un capitale culturale discreto: possedeva infatti un’ormai solida preparazione in letteratura italiana e francese; aveva al suo attivo un’ampia produzione di poesia giocosa, testi per musica, traduzioni e scritti di critica letteraria; e disponeva di abilità e conoscenze linguistiche non comuni. Tutto questo non era tuttavia convertibile immediatamente in ‹moneta›, e il capitale economico del nostro doveva essere, a quel punto, modestissimo se non inesistente, avendo egli probabilmente investito nel viaggio e nel trasferimento in Inghilterra quanto ultimamente guadagnato.10 Ai vantaggi o alle risorse (materiali e non) che una piena appartenenza alla sua famiglia e una continuata residenza in Piemonte avrebbe forse potuto offrigli, Baretti aveva in gran parte rinunciato lasciando Torino e la famiglia nel 1737, e rinunciò praticamente del tutto emigrando in Inghilterra, dopo essersi inimicato il senato accademico torinese polemizzando con Giuseppe Bartoli, candidato vincente nel concorso alla cattedra di eloquenza della regia università. L’estesa rete di amicizie e rapporti che aveva da sé stabilito in Piemonte, in Emilia Romagna e nel Veneto, a Milano e a Genova – ovvero il capitale sociale di cui Baretti disponeva in Italia, nonostante i tanti spostamenti e i molti passi falsi compiuti –, riuscì in gran parte a mantenerla per corrispondenza, mentre faceva fronte, a Londra, alle sue «bruttissime circostanze». Senza disperarsi, ficcandosi «ne’ caffè e alle tavole rotonde», nascondendo i suoi «infiniti affanni ne’ più rimoti buchi del cuore» e raccomandandosi «con onesta franchezza a questo e a quell’altro […] e sempre studiando il dì e la notte la lingua e i costumi» inglesi,11 Baretti riuscì a mobilitare nuove relazioni, di qualità e in quantità tali da garantirgli di mantenersi dignitosamente, trovando collocazione e impiego intellettuali, senza sacrificare più del dovuto la propria libertà d’azione o compromettere la propria indipendenza di pensiero. Nel procurarsi quanto detto, egli fu, in egual misura, intraprendente, persistente e fortunato.

A metà secolo, la sempre crescente ‹elasticità› del tessuto sociale inglese, il pluralismo religioso e la libertà d’informazione e di stampa da tempo vigenti in Gran Bretagna avevano costituito un’attrattiva non indifferente, promettendo a un «forestiero dabbene» la possibilità di evitare «l’essere bistrattato da’ quei tanti tirannelli che formicola[va]no in ciascheduna contrada d’Europa», di perdersi nell’ «immensa Londra» e viverci senza doversi inchinare o scappellarsi troppo, e senza «dar conto a cento barbagianni d’ogni sua parola, d’ogni suo pensiero, d’ogni sua umana debolezza».12 Per uno scrittore privo «di una rendita titolata o di una pensione governativa o mecenatesca»,13 questo voleva dire lavorare in proprio, senza doversi integrare in ambienti di corte o di chiesa, e senza doversi piegare a mortificanti logiche clientelari che ancora dominavano cultura e stampa nella maggioranza degli stati italiani. Tuttavia, proprio il vivace contesto sociale e la liberalità inglesi, legati all’emergere di una robusta borghesia mercantile, imprenditoriale e professionale ed un mercato altamente competitivo, richiedevano al «forestiero dabbene» di provarsi tale, per l’appunto col suo assiduo lavoro, senza né aspettarsi né elemosinare favori, ma meritandoseli con la propria industria. Specie nelle lettere ai suoi fratelli, «difronte ai quali […] si sentì sempre in dovere di rivendicare e sottolineare a tinte forti le glorie e le angustie, cioè la nobiltà, delle proprie scelte di vita», Baretti tese a sfatare alquanto il mito «di un Inghilterra dove, grazie alla libertà e alla ricchezza circolante in profusione» tutto fosse possibile, sostenendo invece che ottenere successo a Londra, per un intellettuale sprovvisto di beni materiali personali, era fattibile «al prezzo di enormi fatiche e sacrifici».14 Anche in lettere ad amici e corrispondenti intimi e di più lunga data, come Francesco Carcano o i Bicetti, egli prese – sempre più insistentemente, col passare degli anni – a sottolineare quanto fosse stato sempre costretto ad affaticarsi «come un cane per campare onestamente in un paese straniero».15

Uno sguardo al tipo di vita che gli altri tre figli di primo letto di Luca Baretti conducevano in Piemonte, permette di misurare la distanza che sempre più venne a interporsi fra il nostro e i suoi fratelli, e chiarisce la natura delle incomprensioni che progressivamente piagarono il loro rapporto. Mentre Baretti rimase scapolo e cercò semmai nelle case e nella compagnia dei suoi amici britannici e dei loro figli (molti dei quali suoi allievi) quel conforto domestico che la sua esistenza sembrava negargli, i suoi fratelli presero moglie ed ebbero prole. Seguendo le orme del padre divennero ‹regi misuratori› e, specie Giovanni e Amedeo, i quali avevano lasciato Torino per tornare in Monferrato (rispettivamente a Casale e a Valenza), ricevettero incarichi, anche di una certa importanza, dalla corte. Vivendo perlopiù in «comunanza di beni» con l’altro fratello, Filippo,16 là dove la famiglia aveva radici e disponeva di qualche bene immobile e di appoggi, non sembra che nessuno dei tre soffrisse dei tracolli economici a cui andò invece soggetto il Baretti primogenito, il quale risiedeva in una metropoli dal costo della vita assai alto, con un reddito fluttuante, dipendente dal numero di lezioni e consulenze che faceva e di progetti editoriali che riusciva a realizzare. I fratelli si trovarono anzi in caso di aiutarlo finanziariamente più di una volta, permettendogli, per esempio, di lasciare nuovamente l’Italia nel 1766. Dopo essere incorso nelle ire di diplomatici portoghesi per certe poco lusinghiere osservazioni fatte sul loro paese nelle lettere di viaggio, ed essere caduto vittima del risentimento del ministro del Regno di Napoli e della vendetta del padre Buonafede e del governo veneziano per quel che aveva pubblicato nella Frusta letteraria (di cui aveva infatti dovuto cessare la stampa), Baretti aveva risolto di tornarsene in Inghilterra.17 Non gli sarebbe stato tuttavia possibile senza l’aiuto economico dei fratelli, alludendo al quale, nel maggio del 1766, ormai in procinto di partire, egli scriveva:

Che bella ventura v’avete avuta quando io vi nacqui fratello, ché finora non sono stato buono che a spolparvi e a distruggervi! Ma così va quando si nasce in un maladetto punto di luna e da un padre pazzo che o vuol far prete il suo primogenito, perché i suoi fottuti predecessori hanno fondato un maledetto benefizio, o lo vuol fare architetto quantunque lo scorga quasi orbo.18

A dieci anni circa dal suo rientro definitivo a Londra, e a pochi mesi dalla dichiarazione d’indipendenza americana e dalla guerra che avrebbe messo in crisi il suo paese d’adozione, i fratelli rinfacciavano a Baretti di non averli mai rimborsati, ed egli rispondeva «dal dì ch’io tornai d’Italia in questo regno, appena ho avuta una ghinea in tasca che non fosse di qualche mio creditore», e spiegava di non aver voluto informarli dei suoi ulteriori guai per «la vergogna di sempre riceverne senza mai darne, e la speranza di poter fare senza sempre tormentarvi».19

2 Il bilancio di una vita

Non sorprende che nelle lettere private dei tardi anni Settanta e primi anni Ottanta, Baretti riflettesse, abbastanza malinconicamente, sulla propria carriera inglese, passata e attuale. Non vi è dubbio che avesse avuto prove tangibili e considerevoli della fama e dell’apprezzamento generale di cui godeva in Gran Bretagna: il suo dizionario inglese-italiano (1760), l’Account on the manners and customs of Italy (1768) e il Journey from London to Genoa (1770), erano stati ben ricevuti e ben remunerati, e avevano avuto ampia diffusione; la sua nomina a segretario per la corrispondenza straniera della Royal Academy of Arts (1769) aveva addirittura preceduto quelle del celebre dottor Johnson e di Oliver Goldsmith a professori onorari della stessa;20 (da Baretti rifiutata) di una cattedra di lingua italiana al Trinity College di Dublino (1774), aveva rappresentato davvero una distinzione senza precedenti, se si considera che ovunque in Gran Bretagna posizioni universitarie erano ancora riservate ai protestanti, e che questa restrizione sarebbe stata ufficialmente revocata solo un secolo dopo. A quanto sopra va aggiunta la «pensioncella d’ottanta lire sterline» annue, assegnatagli dal re nel 1782 in riconoscimento delle sue attività,21 che permetteva a Baretti di precisare come la carica della quale era stato investito dalla Royal Academy molti anni prima non fosse più quel «titolo vano» (ovvero solo onorifico) che fratelli e altri familiari avevano lasciato intendere di ritenere.22

D’altro canto, anche senza contare il notorio e traumatico evento della breve incarcerazione e del processo per omicidio subiti alla fine del 1769,23 da quando era rientrato in Inghilterra, Baretti aveva avuto parecchie delusioni, disavventure e problemi di salute. Fra gli insuccessi professionali va annoverato il fallito tentativo di pubblicare l’edizione commentata di un romanzo spagnolo – Fray Gerundio de Campazas, del gesuita Francisco De Isla – che gli stava molto a cuore, e alla preparazione della quale aveva dedicato molte energie. Durante l’ultimo suo soggiorno in Italia – nel corso del quale aveva speso, un’altra volta, la maggior parte dei ricavati delle sue recenti pubblicazioni inglesi –, egli aveva fatto apposita visita al religioso spagnolo e ne aveva ricevuto il manoscritto originale dell’opera; ma ritornato a Londra non era riuscito a convincere nessuno a stamparla.24 Per gli editori Davies e Cadell, aveva compilato un’antologia di brani scelti da testi letterari inglesi, francesi, italiani e spagnoli (ciascuno riprodotto in lingua originale e tradotto in tutte e tre le altre lingue);25 e per il solo Davies aveva curato, con grande diligenza e determinazione l’edizione completa delle opere di Machiavelli.26 Tuttavia, la più volte prorogata ultimazione e la mancata consegna della traduzione del Don Quixote, a cui aveva lavorato a lungo ma in modo discontinuo, aveva provocato un violento alterco proprio con l’editore Thomas Davies, ponendo fine al loro rapporto di lavoro. A tanta frenetica attività e tanta frustrazione erano seguiti quaranta giorni di febbre, e quando finalmente Baretti ne era guarito, gli si erano manifestati i primi sintomi di gotta. Questo, insieme alla notizia del matrimonio del fratello minore Amedeo nell’ottobre 1772, lo aveva indotto appunto a riflettere sulla sua precaria situazione e a riempire le sue lettere di considerazioni su quella che percepiva essere la sua incipiente vecchiaia, oltre a un numero crescente di previsioni e speculazioni politiche, che danno la misura delle sue molteplici preoccupazioni.

Forse anche perché reduce da malattia e stanco di lotte commerciali editoriali, nell’ottobre del 1773 Baretti aveva deciso di accettare la posizione di insegnante privato di lingue straniere di Hester Maria (che lui chiamò affettuosamente Esteruccia), figlia maggiore dei coniugi Thrale, amici di Johnson. Gli accordi presi con i genitori della sua nuova allieva erano di natura informale e non contrattualmente vincolanti: Baretti non percepiva un regolare stipendio, ma aveva vitto e alloggio garantiti a Streatham Park, la tenuta dei Thrale a sud di Londra, dove anche Johnson passava spesso lunghi periodi e dove molti membri del suo circolo convergevano con regolarità. Pare che Baretti ricevesse solo occasionalmente del denaro quando eseguiva compiti speciali che esulavano dall’insegnamento e comportavano magari delle spese. Essendo egli un individuo orgoglioso e protettivo della propria autonomia, questo tipo di sistemazione doveva essergli andata bene, almeno inizialmente, permettendogli di pensare che non era ‹a servizio› dei Thrale, ma prestava loro i suoi servigi. Vale la pena trattare in dettaglio di questo particolare ‹capitolo› dell’attività di Baretti, poiché quello che era cominciato come un impiego gradevole e per molti versi vantaggioso, ebbe una fine brusca e spiacevolissima, nell’estate del 1776, alla quale seguì una serie di durature ripercussioni negative.

Dopo il successo di un viaggio in Francia, da Baretti abilmente organizzato e guidato nel 1775, i Thrale gli avevano affidato lo studio e la preparazione di un itinerario che li portasse in Italia, insieme alla figlia e a Johnson, permettendo loro di visitare tutto quel che di meglio il paese aveva da offrire. In varie lettere, Baretti aveva gioiosamente annunciato ai fratelli e agli amici italiani il grand tour che stava organizzando, cercando di assicurarsi la loro collaborazione. Da questa corrispondenza privata si deduce che lavorava da più di tre mesi all’elaborazione del piano di viaggio, quando il giovane Harry, unico erede maschio dei Thrale, era improvvisamente morto, nel marzo del 1776. La tragedia aveva significato, ovviamente, l’immediata sospensione di ogni preparativo di viaggio italiano, ma poi anche la sua definitiva cancellazione.27 Il lutto e il disordine generali in cui era precipitata la famiglia, avevano profondamente toccato Baretti; tantopiù che Esteruccia era, proprio allora, caduta malata e si era temuto che anche lei potesse morire, come era purtroppo successo già a sette altri figli dei Thrale (tre dei quali mancati quando il nostro era di casa).28 Egli si era tuttavia anche reso conto che, quand’anche avesse continuato, per qualche tempo ancora, a far da insegnante all’ormai dodicenne allieva, la sua speranza di riceverne alla fine una piccola rendita era del tutto vana. L’accentuarsi di dissapori da parecchio tempo esistenti fra lui e Mrs. Thrale, e in più il dubbio amaro e umiliante che i suoi fratelli avessero avuto forse ragione a metterlo in guardia dal non diventare «un servo in livrea»,29 lo avevano infine convinto ad andarsene e riconquistare piena libertà.

Su questo punto, ovvero la dipendenza che gli obblighi inerenti all’essere ospiti spesati dei Thrale poteva creare, è utile ricordare quel che James Boswell ne scrisse riguardo alla posizione dello stesso Johnson:

I was not pleased that his intimacy with Mr. Thrale’s family, though in no doubt contributed much to his comfort and enjoyment, was not without some degree of restraint. Not, as it has been grossly suggested, that it was required of him as a task to talk for the entertainment of them and their company; but that he was not quite at his ease; which however might partly be owing to his own honest pride, that dignity of mind which is always jealous of appearing too compliant.30

La riflessione di Boswell trova conferma in una lettera in cui Johnson rispondeva a Mrs. Thrale, la quale si era lamentata del comportamento di Baretti nei suoi confronti, secondo lei troppo poco rispettoso delle sue prerogative di madre e padrona di casa e della posizione di ospite che l’insegnante italiano ricopriva:

Poor Baretti! Do not quarrel with him […] He means only to be frank, and manly, and independent, and perhaps, as you say, a little wise. To be frank he thinks is to be cynical, and to be independent, is to be rude. Forgive him, dearest Lady, the rather, because of his misbehaviour, I am afraid, he learned part of me. I hope to set him hereafter a better example.31

In ogni caso, dal momento del suo abbandono di casa Thrale, anche il rapporto di Baretti con Samuel Johnson, il quale aveva dato fra l’altro un giudizio molto sprezzante dell’unica opera pubblicata dal nostro in quegli anni,32 non fu più quello che era stato.

Libero dagli obblighi di ‹precettore› domestico, Baretti aveva ripreso a scrivere con grande fervore, producendo un saggio di cui sarebbe andato sempre molto fiero, con il quale reagiva al feroce attacco sferrato dall’ottantaduenne Voltaire contro il teatro inglese di Shakespeare in due famose e recenti lettere ‹aperte›.33 Reagendo, non solo al trattamento riservato dal filosofo francese al Bardo, ma in parte anche a quello da lui a suo tempo riservato alla poesia dantesca, questo lavoro si sarebbe rivelato molto importante nel contesto culturale italiano, sia per la sua partecipazione ad una rivalutazione di Dante, che per il suo implicito invito a studiare e apprezzare il teatro di Shakespeare e avviare la sua fortuna in Italia. Per queste stesse ragioni, tuttavia, esso non poteva impressionare tanto favorevolmente il pubblico inglese che assisteva da tempo a una campagna, davvero ‹plurimediale›, intenta a fare del drammaturgo inglese un eroe culturale nazionale.

Dovendo coprire nuovamente per intero le sue spese e avendo perduto una delle allieve che gli erano state più care (Hetty Thrale), Baretti aveva necessariamente ricominciato a reclutare nuovi studenti e cercare nuove opportunità di lavoro;34 aveva anche ripreso a offrire consigli di studio per corrispondenza, al nipote Pino (figlio del fratello Filippo) e ad Angela Gozzi (figlia di Gasparo e Luisa Bergalli), ormai sposata e con prole in età scolare,35 rinfocolando così le sue relazioni veneziane. Il 1779 lo aveva visto inoltre ritornare – dopo un quarto di secolo – a contribuire a un’opera musicale: aveva infatti collaborato con François-André Danican Philidor, un compositore francese da lui conosciuto probabilmente nei primi anni Cinquanta, alla messa in scena del Carmen Saeculare: Philidor aveva composto una lunga cantata in quattro parti e oltre venti diversi movimenti, mettendo in musica il testo di varie odi di Orazio, e Baretti aveva tradotto in inglese e annotato i testi per la pubblicazione di un programma a stampa che accompagnasse la produzione dell’opera. Il progetto aveva avuto un buon numero di sottoscrittori e prometteva di fruttare; senonché dopo la terza rappresentazione, Philidor era partito improvvisamente per Parigi portandosi dietro le 900 sterline d’incasso. Baretti, al quale era stato corrisposto soltanto un quarto della sua parte, si era così trovato in grave imbarazzo, dovendo pagare musicisti, cantanti e l’affitto di Freemasons’ Hall dove si erano tenute le rappresentazioni. Era stato, probabilmente, anche per far fronte a quest’altro rovescio economico, che Baretti si era affrettato a compilare la Scelta di lettere familiari, una sorta di manuale epistolografico pubblicato da John Nourse quell’anno stesso in due volumi.36

3 L’«ultima rovina»

Le vicissitudini personali e professionali degli ultimi quindici anni della vita di Baretti si inserivano in un clima politico inglese decisamente cambiato, e non certo più così favorevole allo studio e la pratica delle lingue, letterature e culture straniere che gli aveva reso possibile campare del proprio mestiere di scrittore e docente. È ben noto che la guerra con le colonie americane, scoppiata nel 1775, richiese alla Gran Bretagna sforzi inaspettati e formidabili, inibendo la crescita economica e creando, oltre a problemi di instabilità politica a livello ministeriale, gravi tensioni e divisioni nell’opinione pubblica. La resa dell’esercito britannico alle forze franco-americane assedianti Yorktown, nell’ottobre 1781, ebbe come conseguenza un crollo di fiducia e l’accentuarsi del radicalismo politico e dell’opposizione alla guerra. Dopo quella decisiva sconfitta, non vennero infatti lanciate altre significative campagne: nel marzo del 1782 il parlamento inglese approvò la cessazione delle ostilità, aprendo le trattative che portarono alla stipulazione e la firma del trattato di pace a Parigi, il 3 settembre del 1783. La perdita delle colonie americane e la rapida caduta dei ministeri di Lord Nord, Lord Shelburne e Lord Rockingham, indussero nel paese una forte ansietà, un senso di disagio che sarebbe continuato e si sarebbe approfondito, se non nell’immediato della rivoluzione francese, a seguito dei suoi sviluppi. Baretti non visse sufficientemente a lungo per assistere alla fase finale del suo secolo, ma sperimentò personalmente le difficoltà create all’Inghilterra dalla guerra d’indipendenza americana, che egli considerò, perlomeno a partire dal dicembre del 1777, la sua «ultima rovina»: «stampatori e librai», scriveva allora in una lettera al fratello Amedeo, «non vogliono più fare faccenda alcuna né con me né con alcun altro di que’ tanti scrittori che vivono componendo libri, perché nessuno qua di presente si cura di leggere se non cose politiche e guerresche».37

Il suo personale conservatorismo e l’amicizia con Johnson avevano fatto da tempo gravitare Baretti verso il partito tory, e al pari dei suoi membri egli considerava gli americani insurrezionalisti sudditi disleali di un re «non dispotico», e valutava ingiuste le loro rivendicazioni. A metà del secondo anno di guerra, ancora fiducioso che l’Inghilterra avrebbe prevalso, in una delle sue lettere più conosciute e citate, si era tuttavia dichiarato convinto che i coloni «ribelli» avrebbero continuato a difendersi «con tutta quella pertinacia e con tutto quel furore che sempre accompagna le ribellioni», e aveva palesato la sua paura che questo avrebbe comportato «spese immense» e il moltiplicarsi «di tasse e gravezze» per tutti. Aveva inoltre cominciato a moraleggiare riguardo alle origini della crisi che si andava sviluppando, ricercandole nella «superbia» e nella «tracotanza» degli inglesi, derivanti «dalla soverchia loro prosperità nella guerra passata» (la guerra dei sette anni).38 A Francesco Carcano, che gli aveva scritto di considerarlo «parziale agli inglesi», nel novembre del 1777 Baretti aveva risposto di aver letto migliaia di argomenti pro e contro la guerra d’indipendenza americana, e di aver assistito a migliaia di dispute «fra le più gran teste» che il parlamento inglese avesse; ma non per questo si poteva dire che «scaldato da quelle letture e da quelle dispute» egli si fosse «buttato dall’un partito, anzi che dall’altro»: aveva piuttosto risoluto che tale e tanta era «l’insolenza di questa troppo trionfante nazione» che apprezzarla e approvarla «all’ingrosso» non era possibile, ma ben si potevano amare «molti de’ suoi individui».39

Baretti non era portato né preparato all’approfondimento filosofico, né tantomeno ad un esame lucido e attento della complessa e multiforme situazione politica del momento, che pochi contemporanei seppero, in ogni caso, correttamente diagnosticare o dissezionare. «Benedetta l’Inghilterra! Abbonda di canaglia quanto ogn’altro paese; ma la gente buona v’abbonda altresì», aveva scritto al summenzionato amico milanese nell’aprile del 1770, giungendo ad una delle sue tipiche conclusioni universalizzanti.40 Nonostante le circostanze, tanto sue personali quanto dell’Inghilterra, fossero nel frattempo cambiate molto in peggio, ed egli trovasse probabilmente difficile invocare l’«allegria italiana» che nel 1770 aveva affermato essere una delle ‹chiavi› che gli avevano aperto le porte di tante case inglesi, ripiegare sulla morale che l’esistenza di brave persone fosse ciò che rendeva una vita meritevole d’essere sopportata e vissuta, tornava ad essergli utile. Quanto più la politica o meglio la «guerra interna» fra governo e opposizione – che Baretti giudicava «dieci volte più perniciosa» della guerra «esterna» che si combatteva oltre oceano41 – faceva irruzione nella sua vita scemando le sue possibilità di lavoro e compromettendo le sue relazioni, tanto più la soluzione alla crisi del suo rapporto con l’Inghilterra e con gli inglesi risiedeva in un’anglofilia più astratta.42 Salvare questo rapporto era diventato del resto essenziale quando la ventilata ipotesi di rientrare in Italia a passare coi fratelli quanti anni gli restavano, si era rivelata del tutto inconsistente. Rompendo un silenzio di oltre due anni, nella primavera del 1780, Giovanni e Filippo avevano dato laconica notizia della morte di Amedeo. La risposta che Baretti stilò il 30 giugno 1780, trasudava indignazione e profondo dolore: se ne deduce, che Amedeo, tre anni prima, non aveva voluto assecondare il desiderio del fratello maggiore di tornarsene in Piemonte, ma aveva voluto che se ne stesse «di là dal mare»; che il suo testamento prevedeva, di proposito, «un magro legato» per lui, e che assegnando a Giovanni assai più che a Filippo rischiava di perpetuare il dissidio fraterno insorto anni prima intorno alla vendita di una tenuta; un dissidio che il nostro, a distanza, non era stato in grado di sanare.43 Sarebbe stato questo l’ultimo contatto che Baretti avrebbe avuto con la propria famiglia.

Che il diradarsi o il cessare di frequentazioni un tempo assidue, avesse molto a che fare – come Baretti credeva fermamente – con le temperie politiche inglesi negli anni della guerra d’indipendenza americana, trova conferma nel caso di Edmund Burke. Rientrato in Inghilterra nel 1766, Baretti aveva preso a dar lezioni d’italiano alle giovani sorelle Catherine e Mary Horneck, presso le quali aveva conosciuto, oltre a Oliver Goldsmith, anche Burke. Quest’ultimo aveva consultato Baretti riguardo agli studi linguistici del figlio Richard apprezzandone il buon senso,44 aveva profusamente lodato l’Account e, insieme a Johnson, Goldsmith, Garrick e altri aveva testimoniato a favore del piemontese nel corso del già ricordato processo per omicidio del 1769. Tuttavia, Burke era uno dei parlamentari inglesi di parte whig più in vista, ed era stato uno dei più eloquenti sostenitori delle rivendicazioni delle colonie americane contro la politica di Giorgio III: non è dunque sorprendente che i suoi rapporti con un tory naturalizzato quale Baretti, negli anni Settanta, progressivamente si raffreddassero. Sconcertante può invece essere lo scoprire che dei numerosissimi conoscenti e amici che Baretti si era fatto in Inghilterra, ben pochi potessero o volessero essergli vicini nei suoi ultimi giorni. È importante, dunque, passarli qui in rassegna, per cercare una spiegazione, dare un’idea precisa dell’estesa rete di rapporti che lo scrittore aveva coltivato, e anche per far notare, come si è inizialmente accennato, che molte delle sue relazioni sociali e professionali in Inghilterra non dipendevano dal patrocinio o dalla mediazione di Samuel Johnson.

Fra gli amici di più lunga data, acquisiti vivendo e lavorando a Londra, molti non si trovavano lì alla morte di Baretti, e non pochi lo avevano in quella da tempo preceduto. Il violinista e compositore piemontese Felice Giardini, che per primo aveva accolto Baretti a Londra nel marzo del 1751 ed era stato direttore d’orchestra del teatro d’opera londinese,45 si trovava dal 1784 a Napoli, presso l’ambasciatore Sir William Hamilton (uno dei primi suoi allievi inglesi di violino). Il letterato Vincenzo Martinelli – stabilitosi in Inghilterra nel 1748 in circostanze simili a quelle di Baretti – era rientrato in Italia nel 1775 e vi era morto dieci anni più tardi. Il pittore paesaggista Francesco Zuccarelli, conosciuto dal nostro nei primi anni ’50, durante il primo decennale soggiorno inglese di entrambi,46 e frequentato nuovamente a Londra nei tardi anni ’60, era deceduto nel dicembre del 1788 a Firenze, dove si era ritirato a vivere dal 1771. Nel dicembre del 1785 era scomparso a Londra il pittore e disegnatore Giambattista Cipriani, conosciuto da Baretti insieme ai menzionati Joseph Wilton e William Chambers, quando questi erano rientrati in Inghilterra nel 1755, alla fine del loro soggiorno di studio in Italia, portandosi dietro l’artista fiorentino. E Pierpaolo Celesia, amico di Baretti dai tempi del suo incarico di ministro della Repubblica di Genova a Londra (1755–1759), ricopriva la medesima posizione in Spagna dal 1784.

Fra gli eminenti personaggi della cultura e della politica britanniche di cui Baretti aveva goduto amicizia e protezione, il romanziere Samuel Richardson – «uno de’ meglio amici ch’io m’abbia avuti in quel regno» ricordava Baretti in una lettera del dicembre 177047 –era morto già da quasi trent’anni; il «munifico e bizzarro» propagandista politico e mecenate delle arti Thomas Hollis – il quale aveva inviato libri inglesi in regalo a Baretti quando questi si trovava a Venezia, nel 1763 – era morto da quindici anni; il grande attore shakespeariano, David Garrick, da dieci anni e Samuel Johnson da poco meno di quattro e mezzo. Lo statista irlandese Lord Charlemont – incontrato da Baretti a Torino nel lontano 1747–48, prima dell’espatrio – si trovava a Dublino, nella primavera del 1789, e ricevette la notizia della morte del piemontese quell’estate, da una lettera dello studioso ed editore di Shakespeare Edmond Malone,48 conoscente barettiano di più recente data. Il giurista Sir Robert Chambers – che aveva sposato una delle più care allieve di Baretti, Fanny Wilton, ed era ancora in corrispondenza con lui49 – sedeva a capo della corte suprema del Bengala dal 1783 e sarebbe rimasto in India fino al 1799. Dei «due buoni amici»,50 i botanici Joseph Banks and Daniel Solander, conosciuti da Baretti tramite (o insieme a) l’esploratore James Cook, da loro accompagnato nel viaggio che lo aveva portato a Tahiti,51 il secondo era morto improvvisamente nel maggio del 1782; mentre Banks – asceso, nel 1778, alla presidenza della Royal Society e sempre più assiduamente consultato da enti governativi riguardo all’identificazione e il possible trapianto di colture economicamente redditizie in aree del globo sotto controllo britannico – aveva, proprio negli ultimi anni ’80, aiutato a organizzare l’infelice e famigerata spedizione del Bounty (il vascello che avrebbe dovuto trasportare piante del cosiddetto albero del pane da Tahiti alle colonie britanniche nelle Indie occidentali). E Thomas Thurlow – «il vescovo di Lincoln, fratello del gran Cancelliere, e mio amico», come aveva scritto Baretti al fratellastro Paolo, nella lettera in cui gli descriveva i Gordon riots, violentissime manifestazioni popolari in cui il suddetto vescovo era stato «quasi ammazzato»52 – era stato nominato, dal 1787, vescovo di Durham e lì doveva trovarsi quando il nostro cadde mortalmente ammalato.

L’elenco continua con un altro individuo, con il quale – come nel caso di Burke, ma per ragioni, io credo, diverse – i rapporti si erano intiepiditi o erano del tutto cessati. Il già menzionato musicologo Charles Burney – conosciuto da Baretti dopo il 1766 e da lui caldamente raccomandato al fratello Filippo e agli amici Vincenzo Bujovich e Giovanni Marsili, quando lo studioso si era recato in Italia a raccogliere materiale per la progettata sua History of Music53 – era impegnato, proprio nel periodo della morte del nostro, nella pubblicazione degli ultimi volumi di quell’opera monumentale. Da individuo prudente e assai privato ch’egli era, è tuttavia probabile che Burney prendesse le distanze da Baretti a seguito delle ricordate tre invettive che quest’ultimo lanciò contro Mrs. Piozzi. Nonostante si possa immaginare che, al pari di sua figlia (la scrittrice Fanny Burney), di Johnson, e di gran parte della buona società londinese, anche Charles Burney avesse deplorato l’unione della vedova Thrale con il cantante e insegnante di musica Gabriele Piozzi, egli dovette molto più biasimare il feroce e diretto attacco a lei rivolto da Baretti. A fronte di quel che certi scrittori e giornalisti inglesi si erano permessi di scrivere a proposito del suddetto matrimonio e delle vicende che lo avevano preceduto e lo seguirono, le invettive di Baretti potevano apparire addirittura moderate; doveva tuttavia essere opinione comune inglese che «le satire più violente fossero legittime se provenienti dall’interno del mondo londinese ma diventassero illegittime e sconvenienti se nate dalla penna di uno ‹straniero›».54

Resta da menzionare il celebratissimo presidente della Royal Academy of Arts, Sir Joshua Reynolds, che Baretti aveva probabilmente incontrato assai prima di Johnson, a casa della scrittrice Charlotte Lennox, alla fine del 1752, quando il ventinovenne artista era rientrato dal suo lungo soggiorno in Italia per avviare quella sarebbe stata la sua folgorante carriera di pittore a Londra. Il nostro conosceva bene anche Frances Reynolds, sorella minore del pittore, la quale si era trasferita dal nativo Devon nella capitale, e aveva fatto per oltre vent’anni da governante al fratello, senza peraltro mai ricevere da questi sostegno o incoraggiamento alle proprie fatiche di pittrice e scrittrice, lodate invece da Johnson e da altri. Lasciando una Londra che «riboccava di sedizione e tumulto»,55 e viaggiando in compagnia di Joshua Reynolds, Baretti aveva passato la tarda primavera e parte dell’estate del 1768 in Francia, anche per far visita ad una «amabile dama inglese» identificabile appunto con Frances Reynolds, la quale trascorreva allora un lungo soggiorno a Parigi.56 L’anno successivo, la nomina a segretario per la corrispondenza estera alla Royal Academy of Arts, doveva aver intensificato la frequenza delle occasioni di incontro: Baretti si era preso cura di tradurre in italiano alcuni dei Discorsi accademici di Reynolds nel 1778,57 e si può presumere che fosse su richiesta di quest’ultimo (nonché di Chambers) ch’egli redigesse una guida illustrativa delle sale dell’Accademia e delle opere d’arte ivi raccolte.58 Nonostante le suddette sue prove di devozione all’accademia e ai suoi fautori, non fa specie che Sir Joshua Reynolds non fosse presente al funerale di Baretti e non ne compiangesse la scomparsa nei modi in cui altri lo fecero. Reynolds era notoriamente sempre molto intento al proprio lavoro e al proprio guadagno, e continuava ad accettare all’epoca un gran numero di commissioni, fissando appuntamenti per pose nel suo studio praticamente ogni giorno della settimana. Secondo quel che Boswell ne scrisse, una promessa che Johnson gli aveva strappato, un giorno prima di morire, era stata quella di astenersi dal lavoro almeno la domenica.59 Difficile inoltre stabilire se e quanto, al tempo della morte di Baretti, Reynolds accusasse i sintomi della patologia epatica che lo avrebbe ucciso all’inizio del 1792.60

4 Pigliare il mondo com’egli è

Nei primi anni Ottanta, Baretti acquistò una nuova amicizia inglese, quella del ‹nababbo› Richard Barwell61 ex-membro del Consiglio di governo del Bengala e stretto alleato del Governatore Generale Warren Hastings. Ritornato in Inghilterra nel 1780, vedovo e ricchissimo, con il più giovane dei figli avuti dalla prima moglie, Barwell si era comprato una casa in St. James Square a Londra e una vasta tenuta in campagna. Inoltre, a quarantaquattro anni, nel giungo del 1785, aveva sposato una giovanetta bostoniana di sedici anni, Catherine Coffin. Baretti, presente allo sposalizio, raccontava in una lettera (rivelatrice della qualità personale del suo antiamericanismo) come la fanciulla fosse stata «cacciata con tutta la sua famiglia dalla Nuova Inghilterra da’ quei ribelli» (ovvero i fautori dell’indipendenza americana).62 Nella stessa lettera – ripensando forse alla situazione in cui suo padre Luca aveva messo lui e i suoi tre fratelli, sposando in seconde nozze una donna assai più giovane (la «perfida matrigna» che aveva ottenuto favoritismi per il figlio Paolo ed era riuscita ad accaparrarsi la maggior parte del capitale liquido da Luca Baretti lasciato alla sua morte)63 – il nostro descriveva Barwell all’amico Carcano come un modello di avvedutezza paterna: senza alcuno scrupolo apparente, raccontava al nobiluomo milanese che, «avendo avuto vari figli da varie concubine, bianche e nere, in Inghilterra e nelle Indie», Barwell aveva provveduto «a ciascun d’essi un fondo» e, convolando a seconde nozze, aveva «vincolato in modo i suoi beni» che i figli che ne sarebbero nati avrebbero avuto ciascuno un’equa parte, «senza pregiudizio» dei due figli di primo letto.64 La generosa ospitalità di Barwell, procurando a Baretti la possibilità di lunghi soggiorni di riposo ristoratore (che non si era mai concesso, né si sarebbe potuto altrimenti concedere) nella menzionata tenuta di campagna (a Stansted, nel Sussex), dovette mettere a tacere ogni sua remora, permettendogli di glissare, per almeno un paio d’anni, sui trascorsi di questo filibustiere in India, nonché sulle sue manovre politiche in patria.

In una lettera del settembre 1785, così Baretti descriveva il rapporto in cui era entrato con Barwell, spiegandolo e giustificandolo, non tanto al destinatario, Agostino Gambarelli (ex-studente di Parini, giunto Londra con la raccomandazione del Carcano, nonostante che il nostro ne avesse scoraggiato la venuta e le speranze di facile impiego),65 quanto forse più a se stesso:

La sorte mi manda un signore che […] mi trova atto a fargli passare qualche ora noiosa (e di queste i signori non n’hanno poche) o colle chiacchere morali e politiche, o col whist, o cogli scacchi, o colle tavole, o col picchetto, o con qualch’altra simile coglioneria; e mi dice: – Baretti, vuoi tu venirtene meco in villa per sei o sette mesi?
[…] e il tal signore sa di sicuro che in casa sua io opererò sempre con ogni cauta modestia; che non ardirò mai di pigliare il muro ad alcuni di que’ tanti signoracci che lo visitano, anco nel caso fossero buoi della maggiore grossezza; che alla sua mensa mi farò un punto di sedermi sempre nell’ultimo luogo; che non entrerò mai in alcuna violenta disputa con alcuno, e che lascerò sempre prevalere le opinion di que’ tali signori alle mie, sieno buone o sieno male. A questi patti bisogna stare, chi non ha quanto basta per menare una vita indipendente.

Non sembra di poter rintracciare in questa lettera quasi nulla del Baretti di cui ho trattato: un individuo che sin dalla sua adolescenza – vuoi per necessità, per natura o per scelta – aveva intrattenuto un atteggiamento essenzialmente antagonistico con il mondo a lui circostante; un individuo che aveva sempre tanto energicamente difeso la libertà di esprimere schiettamente le proprie opinioni, anche in Gran Bretagna e su argomenti ‹inglesi›, ovvero anche quando doveva essergli chiaro che, indipendentemente dalla loro qualità e/o correttezza, i giudizi che emetteva su qualsiasi cosa i suoi interlocutori o lettori inglesi ritenessero di loro esclusiva competenza culturale-nazionale, veniva ricevuto perlomeno con perplessità o sconcerto, se non con disprezzo o aperta indignazione.66 Perché mai ridursi a passare del tempo con dei «signoracci» e dei «buoi» con i quali riteneva di non poter trattare alla pari e soprattutto disputare, in quanto amici di chi l’ospitava, ma anche in quanto non erano gli intellettuali galantuomini con cui aveva sempre avuto a che fare? Invecchiato «nelle afflizioni e negli strapazzi», il Baretti che aveva «combattuto col mondo tanti anni», sul finire del 1780 sosteneva finalmente di essere stanco e di non poterne più, e ammetteva addirittura che «non avendo mai avuto animo sufficiente da finirla a un tratto con un laccio o con una pistola», si era «alla fin fine risoluto di pigliare il mondo» com’era, provvedendo «unicamente di mantenere in esso un contegno abbastanza dignitoso, perché i ricchi non mi calpestino o non mi dieno de’ calci per vezzo e per divertimento».67

Con il solito Carcano, nella primavera del 1786, Baretti si lamentava di essere ormai vecchio «e per conseguenza acciaccoso e svogliato oggimai d’ogni cosa»; scriveva che la sua mente andava «pe’ troppi anni intorpidando e infracidando» e che lo scrivere era ormai «fatica non sopportevole». Subito dopo, contraddicendo quanto aveva appena affermato, gli dava tuttavia notizia di «un’opera scarabocchiata […] contro un Buonafede britannico» che aveva appena consegnata allo stampatore.68 L’individuo in questione era John Bowle, un erudito, studioso di storia e di letterature romanze, membro di un club fondato da Johnson l’anno prima della sua scomparsa (lo Essex Head Club), con il quale Baretti ingaggiò quella che sarebbe stata la sua ultima diatriba critico letteraria. Nel corso delle lezioni di spagnolo che ancora impartiva ad alcuni allievi, Baretti aveva usato l’edizione del Don Quixote curata da Bowle e apparsa in sei volumi nel 1781, correggendola tuttavia con fitte note ai margini di molte pagine. Essendosi sparsa la voce delle sue critiche e di queste fitte ‹correzioni in margine›, Bowle se ne era fortemente risentito e aveva avuto la sciagurata idea di dare alle stampe un libello,69 nel quale cercava di rovinare la reputazione linguistico-letteraria di Baretti segnalando le sue carenze, e calunniando il rivale anche sul piano personale.70 Il nostro, impegnato, nel 1786, a curare una nuova edizione, riveduta e ampliata, del dizionario spagnolo,71 non perse tempo a stendere e pubblicare, in quell’anno stesso, anche una serie di dieci discorsi, che faceva precedere da una lettera in latino maccheronico, e a cui dava il significativo titolo spagnolo di Tolondron.72 Con questi discorsi Baretti replicava al Bowle e rispondeva anche ad un paio di lettere apparse sul Gentlemen’s Magazine, raggiungendo punte di asprezza polemica non prima toccate. Come nel caso delle invettive contro Mrs. Piozzi, la violenza dell’attacco alienò molti lettori inglesi contemporanei e avrebbe estraniato anche molti studiosi a venire, impedendo il riconoscimento della superlativa destrezza con cui Baretti sapeva ormai servirsi dell’inglese e del contributo che diede in quell’opera ad una più diffusa conoscenza della letteratura spagnola. La penna di Baretti non era dunque rimasta inattiva e tornò, negli ultimissimi anni, a comporre poesia,73 sempre mantenendo viva la corrispondenza con gli amici italiani che gli rimanevano, il più recente dei quali era il famoso chirurgo e anatomista Vincenzo Malacarne.

5 Epilogo

Baretti morì nella capitale britannica martedì 5 maggio 1789, per complicazioni insorte probabilmente in seguito a un attacco particolarmente violento di gotta,74 un male del quale, come si è detto, aveva cominciato a soffrire a partire dai primi anni ’70, forse già alla vigilia del suo ultimo viaggio in Italia.75 Il giorno prima di morire, percependo l’aggravarsi della propria condizione, Baretti, che era sempre stato contrario a consultare i medici, pare si lasciasse visitare dal dottor Gilbert Blane, senza tuttavia volerne o poterne poi seguire i consigli.76 Oltre al suddetto medico, al capezzale di Baretti accorse, insieme a tre altri individui non identificabili con certezza, il reverendo William Vincent, studioso classicista e decano di Westminster Abbey, il quale compose un benevolo necrologio del nostro per The Gentleman’s Magazine.77 L’architetto William Chambers e lo scultore Joseph Wilton, amici stretti di Baretti e membri fondatori della Royal Academy of Arts, accompagnati dal pittore paesaggista John Inigo Richards parteciparono al suo funerale e assistettero alla sua sepoltura. Quest’ultima avvenne il 9 maggio 1789, il sabato successivo al decesso, nel nuovo cimitero sul lato nord di Paddington-Street (St. George’s Burial Ground), il quale sarebbe stato spogliato delle lapidi e trasformato in un giardino pubblico nel 1885.78

Tutto ciò che oggi resta a Londra in memoria di Baretti è dunque il momumento murale situato nell’ala occidentale del vestibolo della chiesa di St. Marylebone: un bassorilievo in marmo, consistente in un medaglione con la testa e parte del busto del defunto (ritratto di tre quarti), sormontato da un frontone dorico schiacciato, e parzialmente incorniciato da due metopi. L’opera fu eseguita da Thomas Banks, altro membro della Royal Academy, e reca in basso, sotto il medaglione, la seguente iscrizione:

Near this place are deposited the remains of Signor Giuseppe Baretti, a native of Piedmont in Italy, Secretary for Foreign Correspondence to the Royal Academy of Arts in London; author of several esteemed works in his own, and the language of France and England.79

Più che fornire ulteriori informazioni sugli ultimi anni della vita di Baretti a Londra, i documenti qui in appendice corroborano molto di quello che ho voluto, quanto più diligentemente mi è stato possibile, illustrare in questo saggio. L’inventario degli oggetti personali e dei libri trovati nell’alloggio di Baretti fu compilato al fine di una loro stima e di una vendita, il cui ricavato, insieme a vari mesi di arretrati della pensione e un pagamento postumo di certo lavoro eseguito dallo scrittore, servirono a saldare alcuni suoi debiti e a ricompensare – come egli aveva disposto prima di morire – Martha Walters, la donna che gli aveva fatto da domestica. La modestia della mobilia e degli articoli d’abbigliamento messi in lista, dimostrano la ‹dignitosa› povertà in cui Baretti aveva vissuto negli ultimi tempi, e il ritratto del re Giorgio III conferma la lealtà che l’aver ricevuto un suo beneficio gli aveva instillato. Il più importante e più interessante elenco dei manoscritti, degli scartafacci, dei libri in quarto, in ottavo e in folio che lasciò alla sua morte, dà un’idea degli interessi multidisciplinari di Baretti: dimostra come fosse ancora immerso nello studio della lingua e della letteratura spagnola e portoghese; conferma le ricerche da lui fatte per comporre la guida alle gallerie della Royal Academy e per rimanere in costante dialogo con gli artisti dell’accademia; e dimostra il suo impegno a far conoscere in Inghilterra le pubblicazioni degli scrittori italiani suoi amici (per esempio il De conchis dell’illustre Giovanni Bianchi).80 Il numero relativamente scarso di libri suffraga tuttavia anche l’ipotesi che Baretti avesse dovuto disfarsi via via di molti volumi della propria biblioteca vendendoli,81 per ritenere solo quelli che gli servirono nel suo lavoro degli ultimi anni (oltre ai libri di spagnolo e di storia dell’arte e dell’architettura, penso alla storia dei Valdesi di cui si trova traccia in una delle lettere della Scelta di lettere familiari) o che gli erano più cari (come la Vita di Benvenuto Cellini e i volumi della sua rivista La frusta letteraria).

Vorrei concludere citando il paragrafo iniziale di A Guide through the Royal Academy, la guida alle gallerie dell’accademia d’arte pubblicata nel 1781, perché esemplifica in qualche modo lo spirito con il quale Baretti si avvicinò a ogni ‹spazio› culturale e umano che abitò e volle esplorare, preparandosi, disponendosi ad apprezzarne la varietà e diversità, e infine «tesoreggiandone» tutte le informazioni che sapeva ricavarne:

To those, whom either vagrant curiosity, or desire of instruction, brings into the Apartments of the Royal Academy, not to know the design, the history, and the names of the various Models that stand before them, is a great abatement of pleasure, and hindrance of improvement. He who enters, not knowing what to expect, gazes a while about him, a stranger among strangers, and goes out, not knowing what he has seen.82

Appendice

I Joseph Baretti, esq. of St. Marylebone, Middlesex. Probate inventory83

Riproduzione fotografica del documento originale

Fig. 1: 673-674. Cover
Fig. 2: Foglio 673.1
Fig. 3: Foglio 674.1
Fig. 4: Foglio 674.2
Fig. 5: Foglio 674.3

Trascrizione del originale

Da Francesca Luigia Savoia.

Foglio 673.1 (cf. fig. 2)

Foglio 674.1 (cf. fig. 3)

Foglio 674.2 (cf. fig. 4)

Foglio 674.3 (cf. fig. 5)

II Elenco dei beni di Baretti

Trascritto in italiano ed annotato da Francesca Luigia Savoia.

Inventario suppellettili, articoli d’abbigliamento e accessori vari

Un orologio di metallo
Un anello d’oro con una testa
Una tabacchiera
Due paia di occhiali e lenti d’ingrandimento
Due stampe incorniciate con vetro
Un dipinto a olio su tela di Sua Maestà
Un ritratto a olio del deceduto
Vari indumenti di lino
Due tavolini
Un tappeto
Un tampone assorbente di feltro verde

Inventario dei libri

Qui di seguito si fornisce la trascrizione della porzione dell’inventario dei beni di Giuseppe Baretti, pertinente solo a quel che rimaneva, alla sua morte, della sua personale biblioteca. Nel documento manoscritto i titoli appaiono uno di seguito all’altro, senza indicazione del luogo e della data di stampa o del nome dell’editore, spesso abbreviati e talvolta indecifrabili; in alcuni casi si sono aggiunte, entro parentesi quadre, note speculative o informazioni per facilitare l’identificazione delle opere.

Manoscritti

Italian Dialogues [si tratta probabilmente della raccolta di dialoghi bilingui della Easy Phraseology, London: G. Robinson and T. Cadell, 1775]]

Due copie di Fray Gerundio de Campazas [romanzo di Francisco de Isla]

Un fascicolo di testi manoscritti spagnoli [non identificati]

Tre volumi dello Spanish Dictionary [probabilmente il dizionario spagnolo-inglese di Giral Delpino che Baretti revisionò per una seconda edizione nel 1778, e per una terza nel 1786]

Cinque fascicoli di altri testi manoscritti [non identificati]

Libri in Folio

Diccionario della Lengua Castellana 6 voll. [dovrebbe trattarsi del dizionario pubblicato a Madrid nel 1726 da Francisco del Hierro, stampatore della Real Academia Española]

Historie de Vandoises [potrebbe essere la Histoire des Vaudois di Jean Paul Perrin, stampata per la prima volta a Geneve: Matthieu Berjon, 1618]

Dutch Architecture [potrebbe trattarsi di uno dei vari trattati sugli ordini architettonici, di autori olandesi, che circolavano in Inghilterra, per esempio Simon Bosboom: A Brief and Plain Description of the Five Orders of Columns of Architecture]

Biblia Espanola [potrebbe essere un esemplare settecentesco della Biblia en lengua española traduzida de palabra por palabra de la verdad hebrayca, por muy excelentes letrados. Vista y examinada por el Oficio de la Inquisición. Con privilegio del ilustrissimo Señor Duque de Ferrara stampata per la prima volta a Ferrara: Duarte Pinel, 1553, e più volte ristampata ad Amsterdam: Joseph Athias, 1611, 1630, 1646, 1661, 1726]

[Alonso] De Ercilla: [La] Aurancauna [poema epico spagnolo del 1569 che narra la conquista del Cile]

[Le deche di Tito] Livio [tradotte] da [Jacopo] Nardi] [forse la ristampa del 1734]

Las Memorias [di? Comino ?] [titolo di difficile decifrazione]

Libri in Quarto

Tasso 2 voll. [probabilmente un’edizione settecentesca della Gerusalemme liberata]

[Venanzio] Monaldini: [Le] Vite [de’ più celebri] Architetti, [Roma: Paolo Giunchi Komarek, 1768]

Regulations for the Counties of Calcutta, Arabo & Inglese, 2 voll.

[Edward] Clark[e], [Letters concerning] the Spanish Nation [London: T. Becket and P. A. de Hondt, 1763]

Iani Planci [Giovanni Bianchi]: De Conchis minus notis [liber] 9 voll., [Roma: in edibus Palladis I.P.A., 1760]

Delle Senne Porrettane [forse un trattato sulle acque delle Terme di Porretta, vicino a Bologna]

[Nicola Friguignon da] Quaregna Della [politica e regolata] potestà giurisdizionale della chiesa [Torino, 1783, 3 voll.]

[Sir Richard] Fanshawe: traduzione inglese della Luciad di Luis de Camoen [The Lusiad, or Portugal’s hitorical poem written in the Portugal language by Luis de Camoens, and now newly put into English by Richard Fanshaw, Esq., London: Humphrey Moseley, 1655]

[William Bate]: Vitae Selectorum aliquot Virorum qui doctrina, dignitate, aut pietate inclaruere [London: George Wells, 1681]

La Frusta di Baretti

Historie de Lony [probabilmente una Storia di Luni, antica città dell’Etruria che diede nome alla regione della Lunigiana]

Gioven[ale e Persio di Rovigo ?] [deve trattarsi del seguente volume, segnalato da Baretti nella Italian Library del 1757: Giuvenale, e Persio spiegati con la dovuta modestia in versi volgari. Ed illustrati con varie annotazioni dal conte Cammillo Silvestri da Rovigo, Padova: nella Stamperia del Seminario, 1711]

[Il Dbiacce ?] [titolo di difficile decifrazione]

Vita di Benvenuto Cellini

Libri in Octavo

Comedias di Cervantes 2 voll.

Obras di Gongora

Sectani [Lodovico Sergardi] Satyra 2 voll.

[Iulii Caesaris] Scaligeri: Poetices [Libri Septem] [trattato di poetica di Giulio Cesare Scaligero pubblicato per la prima volta a Ginevra e Lione nel 1561]

Don Quixote [dovrebbe trattarsi dell’edizione a cura di John Bowle: Historia del famoso cavallero, Don Quixote de la Mancha. Por Miguel de Cervantes Saavedra, London: B. White, P. Elmsley, T. y T. Payne & J. Robson, 1781, 6 voll.; tuttavia, il numero del volume, indicato in altri casi, è qui mancante]

Senecce [sic] Epistola, [forse la raccolta di lettere morali di Lucius Annaeus Seneca: Ad Lucilium epistulae morales]

[Blaise] de Mon[t]luc: Commentari 4 voll. [l’originale francese Commentaires de messire Blaise de Montluc mareschal de France, Bordeau: S. Millanges, 1592. Ne esistevano edizioni secentesche e settecentesche, anche in traduzione italiana, per esempio: Commentarii di stato e di Guerra del signor Biaggio di Monluc, maresciallo di Francia, Cremona: Marc’Antonio Belpieri, 1628]

Petrarca [forse un’edizione del Canzoniere]

Entremés [en lengua] Castellana [Intermezzi in spagnolo castillano] 2 voll.

Sanadon Horace [Noël-Étienne Sanadon: Les poésies d' Horace. traduites en françois: avec des remarques et des dissertations critiques. Par le R. P. Sanadon, de la compagnie de Jesus. Nouvelle édition revue sur les corrections de l'auteur, rétablie selon l'ordre ancien et augmentée de quelques pièces. 3 voll., Paris: Aumont, 1756]

Capriata [Pier Giovanni Capriata, storico politico del XVII secolo, autore della Historia sopra I movimenti d’arme successi in Italia dall’anno di N.S. 1613 fino al 1618 in cui narrava la prima Guerra del Monferrato in chiave filo-spagnola]

Memoires [du Compte Gaspar] de Chavagnac [la prima edizione uscì a Besançon, presso F. L. Rigoine nel 1699]

Calderon [trattasi forse di un libro di o su Pedro Calderón de la Barca]

[Ubaldo Mari:], La Giasoneide [o sia La conquista del vello d’oro, poema epico in dieci canti, Livorno: Calderoni e Faina, 1780]

[Thomas] Baker: [Reflections upon] learning [wherein is shewn the insufficiency thereof, in its several Particulars: In order to evince the Usefulness and Necessity of Revelation, London: A. Bosville, 1700. Il libro fu ristampato cinque o sei volte almeno, prima della morte di Baretti].

Horace of Dacier [ André Dacier: Les oeuvres d'Horace traduites en francois avec des notes et des remarques critiques sur tout l'ouvrage par M. Dacier, 10 voll., Paris: Denis Thierry, 1691

[José Franciscode Isla: Historia Del Famoso Predicador] Fray Gerundio [De Camppazas alias Zotes] 4 voll. [deve trattarsi di edizione Spagnola; l’edizione inglese – The history of the famous preacher Friar Gerund de Campazas; otherwise Gerund Zotes. Translated from the Spanish – pubblicata a Londra da Thomas Cadell nel 1772 consta di due soli volume in 12°]

[non identificati]

Spanish Plays 46 voll.
Undici insiemi di volumi vari, dieci per insieme
Un insieme di 13 volumi
Un insieme di pamphlets
Un altro insieme di 30 volumi

  1. Samuel Johnson morì nel dicembre del 1784. «It may be said», scrisse allora il commediografo e attore Arthur Murphy, «the death of Dr. Johnson kept the public mind in agitation beyond all former example. No literary character ever excited so much attention» (Si può dire che la morte del Dr. Johnson abbia tenuto l’opinione pubblica in agitazione oltre ogni precedente esempio. Nessuna figura di letterato ha mai suscitato tanta attenzione. [la traduzione di brani inglesi, quando non altrimenti indicato, è dell’autrice di questo saggio]). Murphy, Arthur: An Essay on the Life and Genius of Samuel Johnson, LL. D., London: T. Longman et al. 1793, pp. 3–4. Un’acquaforte del caricaturista Thomas Rowlandson, apparsa sul frontespizio dell’edizione di un componimento satirico (Wolcot, John: Bozzy and Piozzi: or, the British Biographers, a Town Eclogue, London: R. Kearseley 1786), bene illustra la corsa alla memorializzazione del dottor Johnson, la cui fama era tale da poter conferire notorietà (e guadagno) a chi scrivesse di lui. La stampa mostra la celebre diarista Mrs. Piozzi (vedova Thrale) e James Boswell, l’una di fronte all’altro, impegnati in un violento litigio. Un uomo anziano, raffigurante Sir John Hawkins – deputato, nel testo poetico, a stabilire chi fosse l’autore più adatto a redigere la biografia di Johnson – è seduto ad un tavolo e li guarda allarmato. L’immagine è accessibile dal sito del British Museum: https://www.britishmuseum.org/collection/object/ P_1873-0308-278.
  2. A questo proposito si legga la missiva che Baretti inviò all’editore dello «European Magazine» il 20 marzo 1788, facendo dono a quel giornale di un paio di lettere ricevute da Samuel Johnson quando si trovava a Milano nel luglio e dicembre del 1762. Baretti, Giuseppe: Epistolario, a cura di Luigi Piccioni, Bari: Laterza 1936, vol. II, pp. 315–316.
  3. Piozzi, Hester Lynch: Anecdotes of the late Samuel Johnson, LL.D. during the last years of his life, London: T. Cadell 1786; Letters to and from the late Samuel Johnson, LL.D. To which are added some poems never before printed. Published from the original Mss. in her possession, London: A. Straham and T. Cadell 1788.
  4. Le Strictures on Signora Piozzi’s Publication of Dr. Johnson’s Letters, uscite sullo European Magazine nel maggio, giugno e agosto del 1788, sono da tempo disponibili in edizione moderna bilingue inglese-italiana. Baretti, Giuseppe: Invettive contro una signora inglese, a cura di Bartolo Anglani, Roma: Salerno Editrice 2001.
  5. Ubezio, Matteo: «L’Inghilterra vista da vicino. Note barettiane a uso dei connazionali», in ACME, 53, f. 2 2010, pp. 172–211: 179.
  6. Ossorio aveva occupato quell’ufficio diplomatico dal 1729 al 1749. Si veda: Millan’s universal register of court and city offices, Army and Navy, &c…. for the year 1748, London, Millan 1748; e Frigo, Daniela (a cura di): Politics and Diplomacy in Early Modern Italy. The Structure of Diplomatic Practice, 1450–1800, New York: Cambridge University Press 2000, p. 216.
  7. Savoia, Francesca: Fra letterati e galantuomini. Notizie e inediti del primo Baretti inglese, Firenze: SEF 2010.
  8. Trovo utile prendere a prestito concetti e terminologia introdotti da Pierre Bourdieu nell’ultimo quarto del secolo scorso, che hanno assunto ormai carattere istituzionale in sociologia. Questo non sembrerà pretestuoso se si considera che Baretti – per quanto umanamente più disposto e preparato di tanti altri a rilevare e deprecare le condizioni miserabili delle classi sociali inglesi più basse e soprattutto di tanta parte della popolazione urbana londinese – aspirò e riuscì a frequentare la buona società inglese, e la società dei dotti, facendo della sua familiarità con l’alta cultura il proprio ‹passaporto›, il fondamento della legittimità della sua presenza e del suo operare in Inghilterra. È stato Bourdieu a sostenere giustamente come anche la cultura abbia i suoi titoli di nobiltà, i suoi pedigree, variamente assegnati e misurati, e come la definizione stessa dell’eccellenza e superiorità culturale sia stata la posta in gioco in una lotta plurisecolare che ancora dura ai giorni nostri. Bourdieu, Pierre: La distinction. Critique sociale du judgement, Paris: éditions de Minuit 1979.
  9. In una recente relazione congressuale, uno storico specializzato nel Sette e Ottocento piemontesi ha riferito delle vicende della famiglia Baretti aggiornandole alla luce delle sue nuove e preziose ricerche: Merlotti, Andrea: «Se il potessi, vorrei anzi dirmi monferrino che piemontese». Riflessioni su Baretti e il Piemonte, Convegno Internazionale «Giuseppe Baretti scrittore europeo», Accademia delle Scienze, Torino, 5–6 dicembre 2019. Gli atti di questo convegno dovrebbero essere di prossima pubblicazione presso la società editrice Il Mulino.
  10. Penso alla traduzione del teatro tragico di Corneille, che Baretti intraprese, per sua stessa ammissione, per puro bisogno; o alla traduzione di Ovidio, della quale aveva scritto al Vettori «mi stanno più a petto i quattrini che spero buscarne, che la gloria». Baretti, Giuseppe: Tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani con l’originale a fronte, 4 voll., Venezia: Giuseppe Bertella 1747–1748; De’ remedi dell’Amore di P. Ovidio Nasone, in Raccolta di tutti gli Antichi Poeti Latini colla loro versione nell’italiana favella, Milano: Regio Ducal Palazzo 1752, XXIX, pp. 283–347. La lettera al Vettori si trova in Savoia, Francesca: «Datemi carta, penna, e calamaio»: lettere di Giuseppe Baretti a Vittore Vettori, Verona: Edizioni QuiEdit 2019, p. 62.
  11. Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, pp. 287–288.
  12. Ivi, p. 186.
  13. Ubezio, Matteo: «L’Inghilterra vista da vicino», cit., p. 185.
  14. Ivi, p. 186.
  15. Lettera del 6 giugno 1776: Baretti, Giuseppe: Epistolario, II, p. 173. Si vedano anche la lettera alla Bicetti, del 5 maggio 1777: ivi, pp. 204–205.
  16. Difficile stabilire se questa ‹comunanza di beni› durasse solo fino al 1772, anno della vendita del podere di Valenza (di proprietà dei tre fratelli) o fino al 1780, anno della morte di Amedeo. Su questo, la relazione congressuale di Merlotti, menzionata alla nota 9, non ha fatto luce.
  17. A Livorno, nel febbraio del 1766, in attesa di salpare per Genova e da lì procedere per l’Inghilterra, Baretti aveva trovato accoglienza presso il fratellastro Paolo (assistente del console sabaudo in quella città), che ancora non conosceva. Baretti, Giuseppe: Epistolario, 2 voll., a cura di Luigi Piccioni, Bari: Laterza 1936, vol. I, p. 310.
  18. Ivi, vol. II, p. 327.
  19. Ivi, p. 154.
  20. L’approvazione regia della nomina di Baretti a segretario per la corrispondenza estera presso la Royal Academy of Arts fu annunciata ai membri del Consiglio della suddetta il 9 novembre 1769; mentre l’approvazione delle nomine di Samuel Johnson e Oliver Goldsmith a professori, rispettivamente di letteratura antica e di storia antica, fu annunciata il 26 febbraio 1770. La documentazione si trova negli archivi della Royal Academy: Minutes of the Council vol. I (RAA/PC/1/1), p. 48; General Assembly Minutes vol. 1 (RAA/GA/1/1), pp. 27 e 32.
  21. Fu, con ogni probabilità, William Chambers – il quale, come tesoriere della Royal Academy e architetto del re, aveva accesso a corte – a sollecitare il conferimento della pensione regia che fu accordata a Baretti nel 1782.
  22. Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 262.
  23. Sull’argomento, si veda il recente saggio di Arato, Franco: «Baretti alla sbarra. Uno scrittore italiano davanti a una corte inglese», in Giuseppe Baretti a trecento anni dalla sua nascita Atti del Convegno Internazionale di Studi (Seravezza, 3–4 maggio 2019), a cura di Daniela Marcheschi e Francesca Savoia, Pisa: Edizioni ETS 2020, pp. 49–62.
  24. L’introduzione al romanzo e l’esposizione delle controversie sorte in Spagna al suo apparire, incluse da Baretti nel suo fallimentare Proposal for publication by subscription, servirono da «Prefazione» alla versione inglese dell’opera (probabilmente realizzata dal figlio dello scrittore e predicatore Ferdinand Warner): The history of the famous preacher Friar Gerund de Campazas: otherwise Gerund Zotes. Translated from the Spanish. In two volumes, London: T. Davies and W. Flexney 1772; Dublino: Thomas Ewing 1772.
  25. An Introduction to the Most Useful European Languages, Consisting of Passages, from the Most Celebrated English, French, Italian, and Spanish Authors. With translations as close as possible... By Joseph Baretti, London: T. Davies and T. Cadell 1772.
  26. Tutte l'opere di Niccolò Machiavelli segretario e cittadino Fiorentino: con una prefazione di Giuseppe Baretti, London: Thomas Davies 1772.
  27. Si veda, per tutte, la lettera inviata da Baretti a Giovanni Antonio Battarra il 19 aprile 1776: Epistolario, cit., vol. II, pp. 164–165.
  28. Per ulteriori dettagli sulle vicende del rapporto di Baretti con Mrs. Thrale in particolare, si veda: Savoia, Francesca, «A forgotten letter to Mrs. Thrale: revisiting a chapter of Baretti’s career», Bulletin of the John Rylands Library, 96, 1 (spring 2020): 60–76.
  29. «Servo in livrea» doveva essere una locuzione trovata da Baretti in una lettera di ammonimento scrittagli dai fratelli, e da lui classificata come uno «di que’ miseri tropi e goffe figure di rettorica adoperate da Amedeo, che, invece di porle in carta, avrebbe fatto molto meglio a non le pensar neppure». Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 154–155.
  30. «Non ero contento che la sua [di Johnson] intimità con la famiglia del signor Thrale, per quanto contribuisse indubbiamente alla sua comodità e al suo godimento, non fosse priva di qualche vincolo. Non, come è stato grossolanamente suggerito, perché gli fosse imposto il compito di parlare per l’intrattenimento loro e della loro compagnia; ma perché non era del tutto a suo agio; il che, tuttavia, potrebbe in parte essere dovuto al suo onesto orgoglio, ovvero quella dignità di pensiero che è sempre vigile a non apparire troppo arrendevole». Boswell, James: The life of Samuel Johnson, LL.D., London: printed by Henry Baldwin, for Charles Dilly, 1791, vol. II, p. 47.
  31. «Povero Baretti! Non litigate con lui […] Vuole solo essere franco, maschio, indipendente e forse, come dite, mostrarsi intenditore. L’essere franco per lui equivale a esser cinico, e l’essere indipendente all’essere scortese. Perdonatelo, carissima Signora, giacché temo che abbia in parte imparato da me a comportarsi male. Spero di offrirgli in futuro un esempio migliore». The Letters of Samuel Johnson, collected and edited by R. W. Chapman, Oxford: Clarendon Press 1984, vol. II, p. 67.
  32. Mi riferisco alla raccolta di dialoghi bilingui compilata per Hetty Thrale: Easy Phraseology, for the Use of Young Ladies, Who Intend to Learn the Colloquial Part of the Italian Language, London: G. Robinson & T. Cadell 1775. Del giudizio negativo di Johnson trattò Boswell: Boswell, James: The Life of Samuel Johnson, LL. D., London: Henry Baldwin 1791, vol. II, p. 27.
  33. Baretti, Giuseppe: Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire, London: J. Nourse / Paris: Durand neveu 1777.
  34. Una nuova edizione del dizionario inglese-italiano di Baretti, e la sua revisione del dizionario spagnolo-inglese di Giral Delpino uscirono entrambe nel 1778. Baretti, Giuseppe: A dictionary, Spanish and English, and English and Spanish: containing the signification of words, and their different uses; Together with The Terms of Arts, Sciences, and Trades; and The Spanish Words accented and spelled according to the Regulation of the Royal Spanish Academy of Madrid. The second edition, corrected and improved by Joseph Baretti, Secretary for Foreign Correspondence to the Royal Academy of Painting, Sculpture, and Architecture, 2 voll., London: J. Nourse 1778.
  35. Si veda, ad esempio, la lettera del 5 maggio 1777: Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, 210–212. Un’edizione settecentesca del poema eroicomico di Lorenzo Lippi, Il Malmantile (Venezia: Orlandini 1748) appartenuta a Baretti e conservata a Londra, alla British Library, reca sul suo frontispizio, accanto a «colle note / di Puccio Lamoni / ed altri», questa annotazione di suo pugno: «Fra i quali il Baretti, che le ha scritte per due bravi Giovani Inglesi Giovanni ed Enrico Gawler, e non per que’ tanti Coglioni e Cacasenni di cui abbonda la città di Firenze a’ tempi nostri». Essendo John e Henry Gawler nati, rispettivamente, nel 1764 e nel 1766, dovettero prender lezioni da Baretti negli ultimi anni ’70 e i primi anni ’80, il che testimonierebbe il continuo lavoro d’insegnante di lingua e letteratura del nostro.
  36. Baretti, Giuseppe: Scelta di lettere familiari fatta per uso degli studiosi di lingua italiana, 2 voll., London: Nourse 1779.
  37. Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 224.
  38. La lettera a cui si fa qui riferimento è quella del 6 giungo 1776, in cui Baretti informava il fratello Amedeo della «rabbiosa rissa tra l’Inghilterra e le sue colonie»: ivi, pp. 175–189.
  39. Ivi, p. 219.
  40. Ivi, p. 14.
  41. Ivi, p. 223.
  42. Cfr. Ubezio, Matteo: L’inghilterra vista da vicino, cit., pp. 194–195.
  43. «Ve lo pronostico schietto», aveva scritto Baretti ai fratelli nel gennaio del 1772, «che se non fate argine per tempo alla dissension che va crescendo fra di voi, e che vi ha fatti venire alla risoluzione di vendere quell podere, la vostra vecchiaia finirnella disunion e nella freddezza, e anche nella nimicizia, come la gioventù si passò nell’armonia e nel reciproco assistersi l’un l’altro». Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 96.
  44. Cfr. Savoia, Francesca: Il Baretti vostro. Lettere inedite di Giuseppe Baretti, Verona: QuiEdit 2013, p. 59 nota 138.
  45. Questa stessa posizione, fra il 1767 e il 1769, fu ricoperta da Gaetano Pugnani, un altro famoso violinista piemontese allievo di Giambattista Somis, conosciuto e frequentato da Baretti in quegli anni e anche più tardi, quando, richiamato a Torino dalla corte sabauda, Pugnani fece comunque delle tournées in nord Europa e oltre la Manica. Si veda la lettera del 23 ottobre 1772 di Baretti al fratello Filippo: Epistolario, cit., vol. II, p. 115.
  46. Si veda la lettera di Baretti all’Agudio, dell’8 agosto 1754: ivi, vol. I, p. 101.
  47. Ivi, vol. II, p. 57.
  48. Great Britain. Royal Commission on Historical Manuscripts: The Manuscripts and Correspondence of James, First Earl of Charlemont, edited by Sir J.T. Gilbert from manuscripts in the possession of E.P. Wright and the Royal Irish Academy, Dublin, London: Printed for H.M. Stationery Off., by Eyre and Spottiswoode 1891–94, vol. II, pp. 103–104.
  49. Si vedano la lettera del 3 maggio 1782 (Savoia, Francesca: «Un’inedita lettera ‹politica› di Giuseppe Baretti», in Seicento e Settecento, VI, 2011, pp. 33–46) e quella, scritta a più riprese, fra il maggio e il luglio del 1784 (Baretti, Giuseppe: Lettere sparse. Supplemento all’epistolario, a cura di Franco Fido, Torino: Centro Studi Piemontesi 1976, pp. 101–114). Altra corrispondenza fra Chambers e Baretti viene menzionata in Curley, Thomas M.: Sir Robert Chambers Law, Literature, and Empire in the Age of Johnson, Madison: University of Wisconsin Press 1998, pp. 264, 355, 513–514, 578, 608, 614 e 634.
  50. Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 199.
  51. Ivi, p. 256.
  52. Il testo della lettera si trova in Neppi Modona, Leo: «Una lettera inedita di Giuseppe Baretti da Londra durante i Riots del giugno 1780», in La Ricerca Storica, xiv, 2, 1977, pp. 323–334: 146.
  53. Si vedano le lettere del 2 giugno, 6 e 27 luglio, 13 ottobre e 7 novembre 1770, e del 12 gennaio 1771: Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, pp. 14, 16, 20, 31 e 62. Si veda anche Burney, Frances: The Early Journals and Letters of Fanny Burneey, ed. Lars E. Tride, Oxford: Clarendon 1988, vol. I, pp. 246–247.
  54. Anglani, Bartolo: «Baretti tra antifemminismo e anti-sentimentalismo: dalle Strictures a The Sentimental Mother», in Baretti a trecento anni dalla sua nascita, cit., pp. 66–67.
  55. Si veda la lettera del 13 giugno 1768 in Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. I, p. 388. Baretti si riferiva ai disordini seguiti al rientro in Inghilterra di John Wilkes, il parlamentare che aveva attaccato il re e il primo ministro Lord Bute dalle pagine del suo giornale, The North Briton, al tempo della conclusione della Guerra dei Sette anni e della firma della pace di Parigi con Francia, Spagna e Portogallo, ed era dovuto andare in esilio in Francia. L’arresto, il processo e la condanna di Wilkes per diffamazione e sedizione (le stesse imputazioni di cinque anni prima) avevano fatto da catalizzatore di una diffusa opposizione popolare al governo e di risorgenti paure di tirannia monarchica e oligarchia aristocratica, e le proteste dei suoi sostenitori, il giorno della sentenza, erano state brutalmente soppresse in quel che si ricorda come il St. George’s Field Massacre (10 maggio 1768).
  56. Ivi, p. 389.
  57. Delle Arti del Disegno. Discorsi del Cav. Giosuè Reynolds, Firenze: s.e., 1778. Sull’italiano di questa traduzione di Baretti intervenne pesantemente l’editore fiorentino del volumetto (rimasto peraltro anonimo).
  58. Baretti, Giuseppe: Guide through the Royal Academy, London: T. Cadell 1781.
  59. Boswell, James: The Life of Samuel Johnson, cit., vol. II, p. 577.
  60. Si veda l’articolo «Memoirs of Sir Joshua Reynolds», in The General Magazine, 58, March 1792, pp. 93–98: 95.
  61. Del termine nababbo, poco noto o del tutto ignoto in Italia, Baretti spiegava il senso «abusivamente datogli in Inghilterra» in una lettera indirizzata all’amico Francesco Carcano il 25 giugno 1785: Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 283.
  62. Il padre di Catherine, Nathaniel Coffin, fu l’ultimo liquidatore e cassiere doganale di sua maestà britannica nel porto di Boston, e il suo primogenito, Nathaniel jr., avvocato, si crede fosse fra coloro che nell’agosto del 1775 fecero abbattere il famoso liberty tree o albero della libertà, all’incrocio di Essex e Orange Street a Boston, punto d’incontro per gli aderenti al crescent movimento di resistenza contro il dominio della Gran Bretagna. Stark, James H.: The Loyalists of Massachusetts, Boston: W. B. Clarke Co. 1910, p. 235.
  63. Così almeno risulterebbe da quel che Baretti ne scrisse allo Zampieri nel maggio del 1747: Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. I, p. 76.
  64. Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 285.
  65. Si veda la lettera del 9 maggio 1783: «Per iscarico […] della mia coscienza, e perché non mi vengano poi né manco per ombra attribuite quelle gravi miserie nelle quali il signor Gambarelli protrebbe facilmente trovarsi qui, caso effettuasse il disegno di venirvi, in busca di una buona sorte che non ha potuto incontrare costà [in Italia, a Milano], bisogna vi dica alla schiettissima qualmente io non gli darei in fretta il consiglio d’appigliarsi a un tal partito. Voi altri […] v’avete quasi tutti nell’idea che basti venire in Inghilterra per fare immediate il ben di Dio. Ma il Baretti, che la conosce molto meglio che non voi altri, vi dice come nessuno in Inghilterra sa che si fare d’un italiano, se s’avesse anco più di letteratura italica nel corpo, che non ne contengono I Cataloghi del Fontanini commentate dallo Zeno»: ivi, p. 268.
  66. Vale la pena ricordare, anche se molto citato, l’aneddoto del divertente ma astioso scambio di battute fra il fratello di Edmund Burke, William, e Baretti riportato dalla signora Thrale: accusato da Burke di esprimersi troppo perentoriamente su un complesso capitolo della storia inglese, quello della guerra civile, e di pretendere di giudicare due suoi protagonisti, Lord Falkland e John Hampden, sui quali, secondo Burke, non avrebbe dovuto pronunciarsi non essendo inglese, Baretti aveva apparentemente rimbeccato «True, and you should learn by the same Rule to speak very cautiously about Brutus & Mark Antony [sic]; they are my Countrymen, and I must have their Characters tenderly treated by Foreigners» (Vero, e per la stessa ragione voi dovreste imparare ad andarci piano quando parlate di Bruto e Marc’Antonio; sono miei compatrioti, e devo preoccuparmi che il loro carattere sia trattato con comprensione dai forestieri). Thraliana. The Diary of Mrs. Hester Lynch Thrale (later Mrs. Piozzi) 1776–1809, edited by Katharine Balderston, Oxford: Clarendon Press 1942, vol. I, p. 47.
  67. Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 292.
  68. Ivi, p. 297.
  69. Bowle, John: Remarks on the extraordinary conduct of the Knight of the Ten Stars and his Italian Esquire, in a Letter to the Rev. J. S. D.D., London: G. and T. Wilkie 1785.
  70. Va ricordato che Baretti aveva da poco pubblicato anche un saggio sull’ortografia spagnola: Dissertacion epistolar acerca unas obras de la Real Academia Española, London: s. e., 1784.
  71. Diccionario español e ingles, conteniente la significacion y uso de las voces, con terminos propios á la Marina, á las Artes, Ciencias y Comercio, con la acentuacion de la Real Academia de Madrid. Nueva edicion, revista y corregida despues de la edicion de Joseph Baretti, Secretario de la Real Correspondencia de Pintura, Escultura y Arquitectura. Londres: a costa de Piestre y Delamolliere 1786.
  72. Baretti, Giuseppe: Tolondron. Speeches to John Bowle about his edition of Don Quixote, together with some account of Spanish literature, London: R. Faulder 1786.
  73. Mi riferisco alle quattro epistole in versi di cui Baretti dava notizia nella lettera del 7 marzo 1787 (Epistolario, cit., vol. II, p. 309). Baretti, Giuseppe: Quattro epistole, London: s. e., 1787.
  74. Così riferiva un articolo di complessive sei pagine e mezzo (su due colonne per pagina) dedicato a Baretti in due numeri dello European Magazine del 1789: «Anecdotes of Joseph Baretti», in European Magazine, XV, May 1789, pp. 349 e 440–442; XVI, August 1789, pp. 91–95. Il riferimento all’attacco di gotta si trova a p. 92 di quest’ultimo volume.
  75. Nella lettera del 6 febbraio 1770 al fratello Filippo, si capisce che il viaggio era già in programma ma la data della partenza era ancora da fissarsi perché, ultimamente, la salute gli si «andava guastando»; Baretti accusava «dolori nelle ginocchia», non sapeva «se di reumatismo o di gotta». Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 6.
  76. Così riportava l’articolo apparso ‹a puntate›, fra il maggio e l’agosto del 1789, sullo European Magazine, XVI, August 1789, p. 93. Lo scozzese Gilbert Blane, che aveva servito come medico nella marina britannica fra il 1779 e il 1783, ricopriva ormai importanti posizioni a corte e all’ospedale di St. Thomas, a Southwark, e potrebbe sembrare strano che prestasse i suoi servigi ad un Baretti. Si tenga conto, tuttavia, che questo medico risiedeva in Sackville Street, vicino alla nuova Somerset House, ovvero il monumentale edificio in Piccadilly, ricostruito su disegno dell’architetto William Chambers, nell’ala nord del quale avevano trovato degno alloggio la Royal Academy of Arts, la Society of Antiquaries e la Royal Society (1779–1780). Appunto a Somerset House, nel novembre del 1788, Blane era stato chiamato a tenere la Croonian Lecture (On Muscular Motion), una prestigiosa conferenza scientifica che si dava ogni anno su invito della Royal Society o del Royal College dei medici di Londra. Se non tramite qualche amico ufficiale di marina, Baretti poteva aver conosciuto il dottor Bane proprio alla Somerset House, ch’egli frequentava abbastanza regolarmente in quanto segretario della corrispondenza estera della Royal Academy of Arts e membro onorario della Society of Antiquaries.
  77. Il necrologio vero e proprio si trova in The Gentleman’s Magazine, 59, part 1, May 1789, pp. 469–470; segue una lettera all’editore contenente «Anecdotes and Character of the late Mr. [Joseph] Baretti»: ivi, June 1789, pp. 569–570. Non mancarono annunci assai impietosi della morte di Baretti, il più malevolo dei quali apparse sul Public Advertiser del 12 maggio 1789, il quale cominciava come segue: «The death of Baretti has, perhaps, excited regret in no human being» (la morte di Baretti non ha forse suscitato rammarico in nessun essere umano).
  78. Già in una lettera indirizzata ai suoi fratelli il 16 luglio del 1776, Baretti aveva scritto: «ho una probabile speranza di lasciar tanto dietro di me da farmi sotterrare decentemente nel cimiterio di San Pancrazio, dove si sotterrano i cattolici forestieri che muoiono in questa città». Baretti, Giuseppe: Epistolario, cit., vol. II, p. 192.
  79. «Vicino a questo luogo sono depositati i resti del signor Giuseppe Baretti, originario del Piemonte, segretario per la corrispondenza straniera presso la Royal Academy of Arts di Londra; autore di numerose pregiate opere nella sua lingua e in quelle della Francia e dell’Inghilterra».
  80. Circa gli sforzi di Baretti per aiutare due amici naturalisti riminesi, Giovanni Antonio Battarra e Giovanni Bianchi, si veda Savoia, Francesca: Il Baretti vostro, cit., pp. 37–41 (in particolare le note 76 e 79).
  81. Una delle ultime opere in possesso di Baretti e da lui venduta potrebbe essere stata la Raccolta d’Elogi d’Uomini Illustri, compilati da vari letterati fiorentini Toscani in quattro volumi in folio (Firenze: Giuseppe Allegrini 1766–1773) per la quale ricevette £12 12s da William Chambers. I quattro volume sono presenti nella collezione della biblioteca della Royal Academy of Arts e la ricevuta di pagamento firmata da Baretti vi è anch’essa conservata: RAA/SEC/1/13.
  82. «Per coloro che, o da vagabonda curiosità o da desiderio d’imparare, sono portati ad entrare negli appartamenti della Royal Academy, non conoscerne il piano, la storia e i nomi delle opere alle quali si trovano davanti rappresenta una grande diminuzione del piacere e un ostacolo al proprio miglioramento. Chi entra, non avendo idea di cosa aspettarsi, si guarda intorno, estraneo fra estranei, ed esce non sapendo quel che ha visto». Baretti, Giuseppe: A guide through the Royal Academy, by Joseph Baretti Secretary for Foreign Correspondence to the Royal Academy, London: Thomas Cadell 1781, p. 2.
  83. © The National Archives (Kew, Richmond, UK): Exibit 1789/673-674.